BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'


La Chimica della vecchia talpa.
Claudio Della Volpe
Non posso cominciare questo post (vedrete un po’ strano ed anomalo) se non ricordando un altro post scritto anni fa da Rinaldo Cervellati che tutti voi conoscete, collega di Bologna e collaboratore di questo blog dal principio, che ha scritto un bel libro che compare nella nostra pagina principale dedicato alle donne che avrebbero meritato il Nobel. Rinaldo da qualche tempo è in pausa, ma spero tanto ci legga e poi torni a scrivere per noi tutti.
Il post di Rinaldo è splendido ed è dedicato alla mole, un concetto di cui rifà la storia ed analizza la complessità e difficoltà didattica; vi consiglio caldamente di rileggerlo.
C’è una pagina web dedicata sempre a questo concetto (mole e talpa) e che si intitola proprio: Calcolatrice Chimica delle Talpe

In inglese il collegamento fra talpa e mole è immediato, in quanto la talpa si chiama proprio: mole; in tedesco mol.

La parola “mole” in chimica non ha un’origine specifica ma è un calco del tedesco Mole, che deriva a sua volta dal latino moles, “massa” o “quantità”, e fu introdotta dal chimico Tedesco Wilhelm Ostwald per indicare una grande quantità di particelle.
Il post di Rinaldo comincia proprio da quel “cattivone” di Ostwald, ricordandoci che fu un premio Nobel particolare, che ricorda per certi aspetti San Paolo, un convertito, insomma.
Inizialmente era un cultore dell’energetismo, tutto era energia, e la società umana era basata sull’efficienza con la quale era in grado di sfruttare l’energia; gli atomi di cui si parlava ormai da cento anni prima di lui erano solo, per Ostwald prima della “conversione”, un trucco per analizzare i dati.
Ostwald criticava le spiegazioni meccanicistiche della natura che riducevano tutto al movimento degli atomi, l’energia era il concetto più fondamentale e universale, e la materia poteva essere compresa in termini di energia e delle sue trasformazioni. Riteneva che l’idea degli atomi non soddisfacesse lo scopo della scienza di spiegare i fatti e non fosse un’ipotesi sufficientemente robusta, soprattutto in relazione ai fenomeni chimici.
Sebbene non fosse un sostenitore della teoria atomica, Ostwald fu uno dei fondatori della chimica fisica, contribuendo a discipline che in seguito sarebbero diventate fondamentali per la comprensione della chimica moderna, compresa la teoria atomica.
La legge di Ostwald delle diluizioni, sviluppata nel 1888, permette di mettere in relazione la costante di dissociazione di un elettrolita debole con la conduttività ionica equivalente:

Keq è la costante di equilibrio, la lettera greca lambda indica la conduttività ionica equivalente e C la concentrazione. Non ne parleremo oggi.
L’energetismo d’altronde ebbe comunque un enorme peso culturale, per esempio influenzò profondamente il pensiero di Bogdanov, membro dei bolscevichi e che si scontrò con Lenin proprio su questi concetti. Energetismo voleva dire che l’energia era l’unica realtà che accomunasse materia bruta, spirito umano e società umana. Al concetto di atomo Ostwald contrapponeva “il concetto ipotetico di sistema energetico”, aprendosi la via a una rappresentazione unitaria del “divenire naturale”, che va dalla natura inorganica alla vita fino alla nascita della coscienza. Lo scontro fra materialismo ed energetismo vide schierati su fronti opposti le più importanti personalità della scienza mondiale, alcune delle quali ricordiamo qui:
EnergetismoAtomismoOstwald, Mach, Avenarius, Wald, DuhemBoltzmann, Cannizzaro, PerrinRicorderemo invece gli esperimenti condotti da Jean Perrin sul moto browniano delle particelle in sospensione in un liquido che culminarono nel 1908 che fornirono una forte evidenza dell’esistenza degli atomi, dimostrando che il moto irregolare e incessante di tali particelle era causato da collisioni con le molecole invisibili del liquido. Questi risultati hanno permesso a Perrin di determinare valori per costanti fondamentali legate al moto atomico, come la costante di Boltzmann, che hanno a loro volta contribuito a convincere scienziati come Wilhelm Ostwald, inizialmente scettico, della realtà fisica degli atomi.
Ostwald, ormai convertito all’atomismo, ricevette il Nobel per la Chimica nel 1909, per le sue ricerche sui principi fondamentali dell’equilibrio chimico, sulle velocità delle reazioni chimiche e per il suo lavoro sulla catalisi. Perrin lo ha ricevuto per la Fisica nel 1926 per le sue ricerche sulla struttura discontinua della materia, in particolare per la scoperta dell’equilibrio di sedimentazione, che fornì prove concrete sull’esistenza degli atomi attraverso lo studio del moto browniano.
Ma ripeto fu proprio Ostwald ad inventare e portare alla luce il concetto di mole, “scavando”, facendosi spazio attraverso il sottosuolo culturale dell’energetismo, direi nonostante l’energetismo.
In questi stessi anni si sviluppava la meccanica quantistica e la relatività e cresceva la polemica fra Einstein e Bohr, di cui parleremo in prossimi post.
Anche se sembra sconvolgente un Nobel, come Ostwald, poteva arrivare al 1908 senza credere nella realtà degli atomi, ipotesi avanzata da Dalton nel 1801 e diventata rapidamente una teoria fondamentale! Decisamente la scienza non ha uno sviluppo lineare come spesso ci viene raccontato!
Ed è per questo che la talpa che scava sottoterra, invisibile ma poi esplode in modo inatteso in superficie con la sua attività è un’animale che torna nella cultura moderna.
Shakespeare lo fa citare nell’Amleto al suo personaggio rivolto al fantasma di suo padre alla fine del primo atto; la voce dello spettro del padre ingiunge ad Amleto e ai suoi amici di giurare vendetta sulla spada “Swear by his sword”. Il fantasma si è molto spostato, anche se non si vede, dal luogo dove è apparso e scomparso. Perciò Amleto dice “Well said, old mole! Canst work i’ th’ earth so fast? A worthy pioneer!” che si potrebbe tradurre “Ben detto, vecchia talpa. Come fai a lavorare sottoterra così svelto? Che degno minatore!”.
Hegel indicando l’operare dello spirito nel “sottosuolo” della storia e la sua capacità di scuotere la “crosta terrestre” che rappresenta invece il nostro presente scrive nelle Lezioni sulla storia della filosofia «Hai lavorato bene, brava talpa!».
Ma ovviamente la frase più famosa viene ancora dopo, ne Il 18 brumaio di Luigi Buonaparte, Marx riferendosi al processo costante e profondo che modifica la realtà capitalistica della metà XIX secolo sbucando poi come sommovimento sociale nel momento più inaspettato, scrive la celeberrima frase «Ben scavato, vecchia talpa!» attribuendo alla rivoluzione l’abilità del minatore shakespeariano.
Ecco dunque che la talpa come animale simbolico è e rimane importante nella cultura mondiale.
Nella Chimica arriva tramite un caso linguistico; la talpa si dice “mole” in inglese, con una etimologia che condivide la stessa radice del francese “moulon” (cumulo) e del tedesco “Mahl” (granulo), riferendosi però alla terra smossa o al cumulo di terra creato dalla talpa che scava.
A questo punto non mi resta che chiudere il cerchio della talpa citando qui una malinconica poesia di un grande chimico e scrittore, Primo Levi, che scrisse i malinconici versi che seguono, con probabile riferimento a se stesso che cercava disperatamente di “digerire”, di superare la terribile esperienza della Shoah, ma anche l’insensibilità, la difficoltà che trovava nel farsi ascoltare quando parlava di “quelle oscure cose”, un po’ come in “Napoli milionaria!”. In quella commedia del 1950, il drammaturgo napoletano Eduardo De Filippo, attraverso la figura di Don Gennaro, rappresenta invece l’atteggiamento di chi cerca di affrontare la dura realtà post-bellica, ma viene soffocato dal rumore del quotidiano e dalla disperazione dei tempi: nessuno lo ascolta.
Non è tanto la guerra in sé a non essere ascoltata, ma la possibilità di parlarne e di trovare risposte in un contesto di ritrovato temporaneo ed occultante slancio economico; un po’ come quando oggi si parla di guerra e crescita economica dimenticando che sarebbe nucleare e senza ritorno.
Vecchia talpa.
Che c’è di strano?
Il cielo non mi piaceva,
Così ho scelto di vivere solo e al buio.
Mi sono fatto mani buone a scavare,
Concave, adunche, ma sensitive robuste.
Ora navigo insonne Impercettibile sotto i prati,
Dove non sento mai freddo né caldo
Né vento pioggia giorno notte neve
E dove gli occhi non mi servono più.
Scavo e trovo radici succulente,
Tuberi, legno fradicio, ife di funghi,
E se un macigno mi ostruisce la via
Lo aggiro, con fatica, ma senza fretta,
Perché so sempre dove voglio andare.
Trovo lombrichi, larve e salamandre,
Una volta un tartufo,
Altra volta una vipera, buona cena,
E tesori sepolti da chissà chi-
In altri tempi seguivo le femmine
E quando ne sentivo una grattare
Mi scavavo la via verso di lei:
Ora non più; se capita, cambio strada.
Ma a luna nuova mi prende il morbino, e allora qualche volta mi diverto
A sbucare all’improvviso per spaventare i cani”.
Primo Levi, scrisse questa poesia nel 1961, nel Bestiario, una raccolta poi pubblicata nelle sue opere complete.
Cosa riserva il futuro alla talpa nella cultura umana e alla mole in Chimica?
L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che non possiamo rimanere sottoterra, usciamo allo scoperto, diciamo no alla guerra, talpe anche noi.
Consultati:
https://purecalculators.com/it/moles-calculator#h-0-gen
La mole nascosta Dai lavori scientifici ai testi didattici: il caso del Numero di Avogadro.2.Primo Levi, Opere complete
William Shakespeare, Amleto.
https://keespopinga.blogspot.com/2022/07/
LA RELATIVITÀ DA NEWTON AD EINSTEIN (PARTE 3)Fai clic per accedere a DiMeo299-331.pdf
Segnalo la lettura delle frasi seguenti che segnano il percorso del pensiero di Ostwald, la talpa atomica che scava dentro l’energetismo.
Nel 1895, al congresso dei medici e naturalisti che si tenne a Lubecca, Ostwald lesse una comunicazione dal titolo, molto significativo, Il superamento del materialismo scientifico. Tra le altre cose Ostwald disse:
“La materia è un’invenzione, del resto abbastanza imperfetta, a cui facciamo ricorso per rappresentarci quanto vi è di permanente in tutto ciò che accade. La realtà effettiva, quella che opera su di noi, è l’energia, [inoltre] l’irreversibilità di fatto dei fenomeni effettivi della natura dimostra che vi sono processi i quali non sono descrivibili mediante equazioni meccaniche, e con ciò il verdetto sul materialismo scientifico è deciso.”
Intorno alla energetica moderna Wilhelm Ostwald, 1907
Un accenno a questo dovere ed a questa necessità, fatto da me a Lubecca nel 1896 in una conferenza sulla Disfatta del materialismo scientifico, tenuta in occasione della riunione annuale dei naturalisti tedeschi, richiamò, è vero, l’attenzione di molti, ma non riuscì a modificare essenzialmente quello stato di cose. Era perciò necessario di mostrare, portando uno sguardo sintetico nei domini generali della scienza, che il concetto e le leggi dell’Energia hanno in sè stessi realmente la facoltà di unificare e di chiarire, perchè attraggono l’attenzione dello studioso sui problemi reali ed eliminano quelli apparenti. Il mio corso di lezioni di filosofia naturale, tenuto nel 1902, ebbe appunto questo scopo.
Ostwald : 4a edizione del trattato Grundriss der allgemeinen Chemie 1908
«Mi sono convinto che da breve tempo siamo giunti in possesso delle prove sperimentali della natura discreta ossia granulare della materia, [prove] che l’ipotesi atomica aveva atteso vanamente da secoli, anzi da millenni … l’accordo dei moti browniani con le conseguenze dell’ipotesi cinetica che è stato verificato da una schiera di ricercatori…autorizzano ora anche lo scienziato prudente a parlare di una conferma sperimentale della natura atomica della materia estesa. Con ciò quella che è stata finora l’ipotesi atomica è assurta al rango di una teoria scientifica ben fondata».
Ed infine Perrin, il calcolatore del numero di Avogadro, nel suo Les atomes del 1913:
«La teoria atomica ha trionfato. Ancora poco tempo fa assai numerosi, i suoi avversari, alfine conquistati, rinunciano uno dopo l’altro a sfide che furono a lungo legittime e senz’altro utili. È a proposito di altre idee che ormai sarà condotto il conflitto degli istinti di prudenza e di audacia il cui equilibrio è necessario al lento progresso della scienza umana. Ma nel trionfo stesso, vediamo svanire ciò che la teoria primitiva aveva di definitivo e di assoluto. Gli atomi non sono quegli elementi eterni e indivisibili la cui irriducibile semplicità dava al Possibile un limite, e, nella loro inimmaginabile piccolezza, cominciamo a presentire un formicolio prodigioso di mondi nuovi».
Cronaca di un rientro a casa.
Mauro Icardi
Difficilmente si riesce a stare lontani dai propri interessi e dagli argomenti che sono stati la base della tua crescita personale, ancor prima che professionale.
Certi concetti sono come un fiume carsico, sembrano sparire, ma poi si ripresentano. E questo accade anche quando magari vengono per qualche tempo accantonati, per delusione o fatica. Nel mettere in ordine la libreria mi sono ritrovato tra le mani questo numero di “Le Scienze dossier”, supplemento che ormai non viene più pubblicato.

La rivista è uscita nell’autunno del 2000, ovvero un quarto di secolo fa. La mia impressione è che da allora si sia fatto qualcosa, ma non abbastanza. Ogni volta che viene diramata un’allerta meteo si verificano alluvioni, trombe d’aria, grandine con chicchi grandi come palle da tennis; fanno seguito interviste alle persone che hanno subito danni, che si mostrano più avvilite per il danneggiamento dell’auto, piuttosto che del tetto di casa. Si sente spesso ripetere dagli intervistati che non si era mai visto niente di simile in passato, cosa che dovrebbe indurre a qualche riflessione.
Ma tutte queste esperienze, sono esperienze indirette, che hanno un impatto mediato dal mass media che te lo veicola.
Martedì 23 settembre esco di casa come al solito e vado al lavoro. Telefono a casa, cosa che faccio ogni giorno, e tutto è normale. Esco dal lavoro alle 17.00 e mi dirigo in bicicletta verso la stazione di Legnano.
Non ho avuto tempo di guardare dallo smartphone i siti che danno la situazione del traffico ferroviario in tempo reale, sono uscito dall’ufficio con il sole. Arrivato in stazione i monitor mi informano di pesanti ritardi sulla linea che uso per tornare a casa. Richiamo e mia moglie mi informa che ci sono stati una quindicina di minuti di una fortissima precipitazione, con grandine, tuoni e vento.
La cronaca è riassunta in questo articolo dell’edizione milanese di Repubblica.
L’ondata di maltempo che già ieri aveva causato gravi danni in varie zone della Lombardia è tornata a investire il Varesotto: tra le aree più colpite c’è proprio la città di Varese, che è stata flagellata da un autentico nubifragio, con precipitazioni copiose e grandinate. L’acqua è arrivata anche a invadere una parte del centro commerciale Belforte. Alcune strade si sono trasformate in fiumi per le abbondanti piogge – soprattutto nelle zone di viale Ippodromo, di viale Valganna e della Schiranna – mandando il traffico in tilt: Autolinee Varesine, tramite i propri canali social, ha avvisato gli utenti di rilevanti modifiche al servizio su numerose linee, parlando di “allagamenti e disagi diffusi”.
La situazione non è migliore sul versante del trasporto ferroviario: Trenord ha comunicato che per colpa di danni dovuti al maltempo la circolazione è stata momentaneamente sospesa tra le stazioni di Malnate e Varese-Casbeno: tre i treni cancellati. Si segnalano inoltre ritardi dovuti a un veicolo che ha danneggiato le sbarre di un passaggio a livello in prossimità di Varese-Casbeno, nonché sulla linea tra Varese e Gazzada.

Riesco a prendere il mio solito treno delle 17.12 che arriva con solo 25 minuti di ritardo. Ma è strapieno, il conducente si affaccia dal finestrino e mi dice che non sa se potrò salire, il capotreno invece mi fa cenno di sì. Non ci sono solo io che devo proseguire dopo Varese. Sul monitor si legge che la destinazione finale del treno è Varese, dove di solito faccio il cambio salendo sui treni diretti in Svizzera. Ma appena dopo il capotreno ci informa della limitazione del treno a Gallarate.
A Gallarate sul marciapiede dove ferma il treno, c’è il caos. La prima cosa che mi viene in mente sono i film, o i documentari che mostravano come si viaggiava in tempo di guerra. Gente disorientata che mi rende quasi impossibile dirigermi verso il sottopassaggio. Un ragazzo che conosco, che prima viaggiava anche lui con bici al seguito, è fermo da circa un’ora. Hanno annunciato due treni che sarebbero dovuti arrivare a Varese, ma in realtà ha visto partire un treno cantiere, diretto a sgomberare il tratto di linea tra Gazzada e Varese, dove la sede ferroviaria è allagata e ci sono rami caduti sulla linea. Capisco che la situazione è critica. Riesco ad arrivare sul piazzale esterno della stazione, richiamo casa avvertendo che data la situazione rientrerò in bicicletta. Mi raggiunge il mio amico, che dice che andrà a farsi prestare una bici dalla sorella che vive a Gallarate e che farà come me. Lo saluto perché intanto la perturbazione che ha flagellato la Valceresio si sta avvicinando. Appena lasciata Gallarate mi riparo sotto un balcone, indosso i pantaloni antipioggia, e la copertura impermeabile allo zaino. Un fulmine saetta a poche decine di metri, con conseguente botto assordante. Non provo paura, ma sgomento, e comincio a pensare se non dovrò cercarmi un albergo per dormire in zona. Poi la situazione si normalizza. Alla fine pedalo fino a Varese bene o male riparato dalla mia attrezzatura antipioggia per la bici, e mi dirigo in stazione per verificare la situazione della circolazione dei treni. Sta riprendendo gradualmente, quindi salgo su un treno annunciato con arrivo a Chiasso, perché freddo e umidità si stanno facendo sentire. Veniamo ancora fatti spostare su un treno pronto sul binario a fianco, perché il blocco della circolazione ferroviaria e i ritardi hanno scombinato tutti i turni e la circolazione ordinaria ne risente. Il treno fermerà a Mendrisio, i passeggeri diretti a Lugano troveranno coincidenza, mentre per Chiasso ancora non si sa nulla. Io nel frattempo sarò già sceso ad Arcisate.
Alla fine uscito dall’ufficio alle 17.00 entro in casa alle 20. Posso dire di essere stato fortunato, anche se ceniamo a lume di candela, perché la corrente ancora non è tornata. Qualche tegola del tetto è spostata, ma il tetto è ancora sulla nostra testa. Ma ci andrà sempre così bene? Si è cenato a lume di candela, perché la corrente non era ancora tornata, però non c’era un’atmosfera romantica, tutt’altro.
Ho assaggiato l’antipasto della “carne dell’orso” di cui parlava Primo Levi, che poi trasformerà nel racconto Ferro nel “Sistema periodico”.
Pensavo di essere resiliente, in parte lo sono stato. Ma la paura e il disorientamento si sono affacciati alla mente. E soprattutto ho potuto sperimentare nei giorni successivi il solito disinteresse al tema, già sperimentato in altri contesti, anche familiari. Nella stessa settimana Trump intervenendo al palazzo di vetro all’Onu dichiara che :” Il cambiamento climatico è “la più grande truffa” di tutti i tempi. Le politiche green dell’Europa sono inattuabili “e porteranno al fallimento” diversi paesi. Negli ultimi anni “non c’è stato un aumento delle temperature anzi un raffreddamento”.
Se qualcuno ha lo stomaco forte, può trovare in rete il testo integrale del discorso. Le farneticazioni del presidente degli Stati Uniti fanno il paio con quelle di Adolf Hitler.
Questo blog si occupa di chimica, di scienza, ma oggi è sempre più difficile e faticoso farlo, in un mondo dove il senso della realtà è ai livelli più bassi di sempre.
Mi scuso con i lettori, in questo post non c’è chimica, non c’è depurazione, ma ugualmente non potevo tenere queste sensazioni solo per me. La crisi del clima è una guerra silente, che viene peggiorata da ogni conflitto reale, in termini di emissioni di combustibili fossili. E decine di istituzioni scientifiche per lo studio del clima vengono cancellate d’autorità negli Stati Uniti. Tutto questo è follia, non trovo un altro termine che possa definire meglio la situazione attuale.

Mi prendo un’ultima libertà. Dedico questo post al mio carissimo amico Maurizio Tron, ormai “diversamente presente” dall’Aprile 2024. Maurizio, insegnante al Liceo scientifico Pascal di Giaveno, per anni vicepresidente della società meteorologica italiana, era colui che sempre cercavo quando queste sensazioni di incredulità e di inutilità mi assalivano. Primo Levi raccontava di un sogno: era a tavola con amici e parenti, in un’atmosfera giovale e festosa. Ma quando iniziava a parlare della prigionia, uno alla volta i suoi amici e familiari si alzavano e lo lasciavano solo. Qualcosa di simile mi capita quando cerco di parlare con amici o parenti della crisi climatica. Nessuno abbandona il tavolo lasciandomi solo, ma capisco di essere il guastafeste, alla fine abbandono il tentativo Con Maurizio questo non succedeva mai E parlare con lui mi aiutava sempre a trovare quel briciolo di speranza. Critica ma pur sempre speranza.
Chimica a due facce.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
A caccia di casi di specie che dimostrino quanto sia vero parlare di 2 volti della Chimica ho trovato quest’altro dato.
Il TiO2 è universalmente accettato come un foto-catalizzatore efficace: in presenza di opportuna radiazione UV produce vacanze elettroniche nella sua banda di valenza ed eccessi elettronici nella sua banda di conduzione (band-gap di 3.25 eV). Questi, le une e gli altri, reagiscono con O2 e H2O producendo ROS, ossia specie radicaliche dell’ossigeno, idrossido, perossido e superossido in grado di attaccare le molecole di molti composti con la conseguente loro degradazione, quindi con una possibile applicazione sul piano ambientale ed igienico sanitario.
Purtroppo man mano che la degradazione procede la sua efficienza diminuisce. Si è così trovato che l’aggiunta di fluoro, il tanto temuto elemento dei PFAS, sia assorbito in superficie del TiO2, sia aggiunto come drogante nella sua struttura, consente di superare questo inconveniente garantendo una prolungata efficienza al processo di fotodegradazione.
La faccia buona del diossido di titanio ha però anche un altro connotato. Fa riferimento al suo impiego come colorante classificato E171 utilizzato in molteplici applicazioni a partire da componente di pitture e quadri, anche se solo moderni vista la giovane età di questo colorante; ad essi conferisce luminosità e opacità, la stessa attività che svolge verso i rivestimenti in resina. Anche le applicazioni cosmetiche rispondono al criterio delle due facce: da un lato utilizzato come filtro solare per proteggerci dai pericolosi raggi UV responsabili del melanoma, aggressivo tumore della pelle, dall’altro agente di reazioni cutanee come dermatiti, eczemi, allergie, o addirittura di invecchiamento e infiammazioni croniche della pelle, per non parlare della sua cancerogenicità dermica, tanto che l’uso in questo campo è stato vietato dal 2024. Ancora una chimica singolarmente a due facce: per prevenire il melanoma dovuto ai raggi UV si usa per protezione un composto potenzialmente cancerogeno!!
Oggi però a rinforzare la seconda faccia, quella cattiva del TIO2, arrivano i risultati di una ricerca pubblicata da istituzioni di ricerca francesi (CNRS, INRAE, AP-HP) che evidenzia come questo composto sia ritrovato nel quasi 90%di un set di campioni di latte materno, animale o industriale.

Tenuto conto che si tratta di un composto vietato per uso alimentare sin dal 2022 questa scoperta non può che essere collegata ad una ubiquitarietà del composto in questione che contamina suoli ed acque. Questo dato non può non preoccupare tenuto conto della cancerogenicità del TiO2 e del fatto che i consumatori del latte materno sono neonati, quindi soggetti appena venuti alla vita, quindi non ancora sviluppati per resistere alle insidie dirette alla propria salute.
La ricerca è stata eseguita impiegando come tecniche analitiche Fluorescenza X e Spettrometria di Massa al fine di individuare micro e nano particelle del TiO2 nei campioni di latte. Con queste tecniche i ricercatori hanno ricercato nel latte materno composti dai nomi non noti al consumatore medio, ma ben noti in ambito scientifico in quanto derivati del TiO2, tra i quali rutilo ed anatasio, entrambi ossidi, ilmenite (FeTiO3), titanite (CaTiSiO5), pseudo-brookite (Fe2Ti05).
Quasi tutti (90%) i campioni di latte materno analizzati, liquidi o in polvere, biologici o meno, pastorizzati o no, sono risultati positivi al test contenendo da 6 milioni a 4 miliardi di nanoparticelle di TiO2, a seconda del tipo di campione. Il commento degli autori è particolarmente preoccupante: fra concentrazione nell’ambiente e presenza nel latte materno del TiO2 c’è un gap che impedisce la correlazione fra i 2 dati: ma allora la fonte deve essere un’altra e deve essere trovata al più presto tenuto conto della tossicità del composto, anche per gli adulti, e che il suo impiego in vernici, materiali di vario tipo, rivestimenti è in continua crescita.
Il consumo mondiale di biossido di titanio (TiO₂) nel 2024 è stato valutato in oltre 21,49 miliardi di dollari e si stima che supererà i 48 miliardi entro il 2037, con una crescita media annua (CAGR) superiore al 6,4%. La crescita è trainata dall’aumento della domanda di vernici e rivestimenti, settori chiave per l’utilizzo del TiO₂, soprattutto in Asia-Pacifico a causa della rapida industrializzazione e dell’edilizia.
C’è stata vita su Marte?
Diego Tesauro
Da Epicuro a Giordano Bruno, da Kant a Hegel, sono molti i filosofi che si sono interrogati, talvolta in modo scettico, altre volte meno, sulla possibile esistenza di forme di vita extraterrestre.
Nel XIX secolo a seguito della scoperta dei canali da parte di Schiapparelli, con le maggiori somiglianze con la Terra rispetto agli altri pianeti del Sistema Solare, Marte è stata ipotizzata come la sede della vita alternativa alla Terra più vicina a noi. Anche la fantascienza e l’arte vedeva in Marte il pianeta in cui vivevano gli “omini verdi”. Nel romanzo “Sotto le lune di Marte” lo scrittore Edgar Rice Burroughs descrisse varie specie di Marziani, tra cui una razza con la pelle verde e nella famosa Guerra dei Mondi nel 1938, Orson Wells faceva una radiocronaca dello sbarco dei marziani in una cittadina del New Jersey. In realtà già dall’inizio del XX secolo si era compreso che su Marte, date le condizioni attuali dell’atmosfera, estremamente rarefatta (al suolo la pressione è di 4 mbar) e composta dal diossido di carbonio, al massimo potevano essere presenti forme di vita unicellulare nel suolo.
Su queste basi, durante la missione Viking nel 1976, toccando il suolo di Marte, furono effettuati esperimenti basati sulla somministrazione di amminoacidi, acido glicolico, lattato e carboidrati in entrambe le forme levogira e destrogira per verificare se si producessero ossidi di carbonio, generati dal metabolismo di possibili microbi presenti nel suolo marziano. I risultati, discutibili all’epoca, non diedero una risposta univoca, ma successivamente si è esclusa la presenza di attività microbica.
Ciò che però non ci si aspettava era che uno strumento principale a bordo dei lander, il gascromatografo-spettrometro di massa, non rilevò alcuna materia organica. Questa fu una sorpresa per gli scienziati, che sapevano che il materiale organico veniva depositato sulla superficie marziana da comete e meteoriti. L’apparente assenza di molecole organiche nel materiale superficiale marziano è diventata un mistero scientifico per decenni. Nel 2008, la sonda spaziale Phoenix esplorò il polo nord di Marte. Phoenix scoprì la presenza del perclorato sul suolo marziano, raro sulla Terra. Dopo ulteriori conclusioni sulla presenza di questo sale su Marte e esperimenti complementari sulla Terra, gli scienziati ipotizzarono che questo sale potesse aver clorurato eventuali sostanze organiche all’interno degli strumenti Viking. Effettivamente negli esperimenti del Viking è stato possibile individuare un prodotto di reazione tra il sale e le sostanze organiche presenti nel forno Viking, il clorobenzene, una molecola organica clorurata [1]. La presenza del perclorato aveva qualche anno fa spinto un gruppo di ricerca tedesco a dimostrare la possibilità di forme di vita estremofile quali gli Archea capaci di sopravvivere in queste condizioni di cui ci siamo occupati in un altro post .
Accertata la presenza di sostanze organiche, da allora tutte le missioni spaziali hanno avuto come obiettivo oltre a quello di dimostrare l’esistenza di sostanze organiche, se in passato ci fosse stata della vita microbica, rilevando un’origine biotica delle molecole. In questo scenario si inserisce la missione NASA Mars 2020. Il rover Perseverance sta esplorando il cratere marziano Jezero, in quanto è uno dei luoghi più promettenti per l’identificazione di vita extra-terrestre nel passato del pianeta rosso. Il cratere corrisponde ad un’antica area che un tempo ospitava un lago e che in passato potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità. Rilevare materia organica è fondamentale per valutare la possibile abitabilità passata ed identificare potenziali biosignature, poiché composti organici semplici possono essere nutrienti per la vita e composti organici complessi possono fornire evidenze dirette di biogenicità.
I risultati sono stati oggetto di una recente pubblicazione su Nature Astronomy [2].
Per poter effettuare le analisi, a bordo del rover, è stato utilizzato lo strumento Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals (SHERLOC), uno spettrometro Raman e di fluorescenza nel profondo UV (DUV). I risultati sono stati paragonati a quelli ottenuti in laboratorio (a cui ha collaborato un laboratorio dell’Università Federico II) effettuando le stesse analisi con precursori sintetizzati ad hoc. In particolare un confronto tra il set di dati di laboratorio e le osservazioni SHERLOC nella zona QRT (parte della formazione rocciosa Séítahe dove è “ammartato” Perseverance ) e sul campione Pilot Montain (PMT) ha mostrato che diversi tipi di composti organici aromatici sono presenti nei solfati come il naftalene, l’1- e 2-naftolo (HN), 1,3- e 2,6-diidrossinaftalene (DHN), il 9-metilantracene (9-MA), l’uracile e un polimero di idrocarburo aromatico ossi-policiclico (IPA) sintetizzato da 1-HN (poli1-HN) – presentano intense bande di strechting dell’anello C–C e C=C (e bande di allungamento C=O nel caso di composti come l’uracile con gruppi funzionali carbonilici sull’anello aromatico) in diverse posizioni all’interno delle regioni spettrali di interesse. Ci si pone quindi il problema dell’origine di queste molecole e si prefigurano 4 scenari (Figura 1). Lo scenario 1a descrive un processo igneo in situ per la formazione di IPA a partire da gas magmatici intrappolati nei pori delle rocce ignee del cratere Jezero, ed in seguito conservati nei solfati precipitati a seguito dell’alterazione acquosa, che potrebbe essere coerente con l’origine della zona da cui proviene il campione QRT. Lo scenario 1b descrive un processo igneo ex situ per la formazione di IPA verificatosi all’esterno del cratere Jezero, e solo successivamente trasportati verso il cratere Jezero, dove gli IPA potrebbero essere stati coprecipitati con i sali solfati o intrappolati e conservati all’interno dei cristalli. Questo scenario potrebbe essere coerente con le osservazioni sia del campione QRT che del PMT, e con l’accumulo selettivo di IPA in queste rocce al posto del carbonio macromolecolare (MMC) a causa della sua minore mobilità nelle fasi fluide. Lo scenario 2 descrive un potenziale meccanismo idrotermale per la formazione di IPA e il successivo trasporto da parte di acque sotterranee idrotermali che potrebbe essere correlato all’idrotermalismo regionale associato al vulcanismo della Syrtis Major. Lo scenario 3 descrive un potenziale processo di rilascio esogeno di IPA o di produzione durante processi di impatto d’urto. Lo scenario 4 descrive una potenziale origine biotica degli IPA come prodotti di degradazione chimica di antichi composti biotici.

Figura 1 Schema dei 4 scenari proposti dai geochimici del lavoro di Nature Astronomy. Le frecce verdi indicano i meccanismi di formazione in situ, mentre le frecce blu indicano i meccanismi di formazione ex situ. Le posizioni dei target QRT e PMT nel cratere Jezero sono mostrate in un’immagine acquisita dalla telecamera stereo ad alta risoluzione a bordo della sonda orbitante Mars Express dell’ESA. Credit: background image, ESA/DLR/FU-Berlin/NASA/JPL-Caltech
I risultati ottenuti sono coerenti con gli studi sui meteoriti marziani e le osservazioni dal cratere Gale e rafforzano l’ipotesi che i solfati potrebbero essere cruciali nella conservazione e nel trasporto di molecole organiche nell’ambiente marziano e, quindi, potrebbero aver svolto un ruolo significativo nel ciclo del carbonio marziano, influenzando la disponibilità e il ciclo dei composti del carbonio necessari alla vita.
Nonostante la rilevanza dei risultati alla domanda che ci siamo posti all’inizio su una possibile presenza di vita nel passato di Marte, non si può associare una risposta definitiva. E’ necessario stigmatizzare i titoli dei quotidiani e dei siti internet, che per catturare l’attenzione del lettore, riportano nel titolo argomentazioni diverse da quelle correttamente riportate negli articoli. Considerati i limiti delle tecniche di spettroscopia Raman e di fluorescenza di Perseverance, intrinsecamente meno diagnostiche dei metodi di spettrometria di massa utilizzati dal rover Curiosity, che forniscono identificazioni chimiche più definitive, le diverse ipotesi richiederebbero ulteriori studi di laboratorio. Questi studi potrebbero ricostruire i processi di alterazione chimica che potrebbero essersi verificati nel cratere Jezero nel tempo e che hanno portato alla formazione delle sostanze organiche osservate. Una risposta più chiara si potrà avere quando i campioni torneranno sulla Terra nell’ambito della Mars Sample Return Campaign per analisi ad alta sensibilità in laboratori terrestri.
Bibliografia
[1]Guzman, M. et al. Journal of Geophysical Research: Planets. 2018, 123, 1674-1683. 10.1029/2018JE005544
[2] Fornaro T. et al. Nature Astronomy https://doi.org/10.1038/s41550-025-02638-z
Esplosioni subacquee.
Claudio Della Volpe
Pochi giorni fa i giornali hanno reso noto l’arresto, avvenuto in Italia, di un cittadino ucraino considerato il coordinatore responsabile delle esplosioni che hanno distrutto o reso inattivi i due gasdotti che portavano gas dalla Russia alla Germania.
Secondo i giudici tedeschi che ne hanno ordinato l’arresto con un mandato internazionale costui, un agente segreto tale Kuznietsov, “posizionò almeno quattro ordigni esplosivi”, ciascuno tra i 14 e i 27 kg, composti da esogene (Rdx) e ottogene (Hmx) con micce a tempo, a nord-est e a sud-est dell’isola di Bomholm, a una profondità di 70-80 metri sul fondale dei gasdotti.
Una valutazione inferiore a quella fatta su Wikipedia alla voce https://it.wikipedia.org/wiki/Sabotaggio_dei_gasdotti_Nord_Stream, dove si parlava di esplosivi simili (il C4 è una formulazione contenente RDX e plasticizzanti) ma in quantità nettamente superiore per giustificare la forza delle esplosioni registrate.
Nel raccontare questa storia, che forse qualcuno aveva dimenticato, e che conferma che dopotutto “la guerra è una continuazione della politica”, come diceva qualcun altro, la Chimica è entrata di prepotenza, perché le esplosioni sono state realizzate usando i due esplosivi dal nome suggestivo di esogèno ed ottogène, definiti come nomi chimici, ma che non sono che nomi comuni di due molecole
Esogène o esanitrodifenilammina o RDX

Ottogène o ciclotetrametilentetranitroammina o HDX

Questo ci da l’occasione di fare due parole sugli esplosivi e sui loro effetti subacquei, che come vedremo sono alquanto spettacolari.
Anzitutto ricordiamo cosa è un esplosivo o un’esplosione: è una reazione di ossidoriduzione che avviene velocemente fra un’ossidante e un riducente in genere o in una molecola che contenga entrambe le funzioni con la produzione di calore e di un’onda d’urto (dovuta alla generazione di gas) che producono insieme gli effetti desiderati. Una combustione rientrerebbe in questo tipo di definizione ed infatti molti esplosivi sono semplicemente dei combustibili che bruciano velocemente nell’ambiente ossidante dell’atmosfera; ma non tutti sono così.
Ci sono poi un paio di altri punti da tener presente per una analisi di base.
- La velocità dell’esplosione: La deflagrazione è un processo di combustione rapidissima ma subsonica (più lenta del suono), mentre la detonazione è un processo ancora più rapido e violento, con una propagazione supersonica (più veloce del suono), accompagnata da un’onda d’urto e pressioni molto più elevate. La differenza fondamentale è la velocità di propagazione dell’onda di pressione generata dalla reazione che ovviamente provoca effetti molto diversi.
- Il bilancio di ossigeno: dato che l’ossigeno è l’ossidante comune in atmosfera un esplosivo può sfruttarlo; si dice che un esplosivo ha un bilancio di ossigeno positivo se nella sua molecola c’è più ossigeno di quel che serve per ridurre tutti i suoi componenti alla forma ossidata finale (acqua, CO2, NOx etc), mentre il bilancio può anche essere negativo o nullo; quest’ultimo caso è il migliore perché la reazione può avvenire in qualunque ambiente e con i rapporti ottimali fra i reagenti.

Sia RDX, HDX (a volte indicato come HMX) che C4 hanno bilancio di ossigeno negativo. Alcuni sono mostrati nell’immagine qua sopra.
Devo dire un’ultima cosa, che mi ha colpito; nel preparare questo post (cosa che come sempre mi comporta un po’ di lavoro di approfondimento) mi sono reso conto che nei testi scientifici invece di scrivere esplicitamente esplosivo si usa spesso una diversa definizione, quasi che questo potesse rendere meno “ostico” l’argomento o più neutro.
Questi materiali vengono definiti “high energy density materials”, (HEDS, un bell’acronimo non si nega a nessuno) materiali ad alta densità energetica e si dice che il loro uso può essere bellico ma anche nell’industria aerospaziale, come propellenti o casomai nell’industria del divertimento (i fuochi di artificio); nulla mi toglie dalla testa che questa pur giusta definizione, tecnicamente giusta, abbia un contenuto “ideologico”, neutralizzante, del tipo; la scienza inventa cose, ma poi gli uomini possono usarle bene o male; anche questo messo così è vero, ma il punto basilare è perché si inventano le cose, cosa spinge a farlo, le domande da cui queste scoperte sono mosse, le risorse che vengono messe a disposizione e da chi.
Personalmente credo che in questo senso preciso la scienza non sia o non sia più neutra. Lo è stata per un certo tempo (forse), ma al momento l’uso della forza è una spinta troppo radicale per trascurarne gli impatti sul nostro lavoro, che ne è fortemente influenzato, perfino NEI CONTENUTI (argomento discutibile, ma ci tornerò in altri post).
Torniamo al nostro argomento.
Una esplosione sott’acqua è diversa da una in aria; per vari motivi: 1) non c’è ossigeno disponibile, dunque un esplosivo a bilancio di ossigeno negativo è sfavorito, non può esplicare la sua potenza appieno, ne serve di più 2) l’acqua è incomprimibile e dunque qualunque onda di pressione è trasportata più efficacemente che in aria, anche se l’inerzia della massa da spostare è parecchio più alta ed infine l’innesco è reso più difficoltoso.
Alcune di queste cose ed i loro effetti sono mostrati nei video spettacolari mostrati nella pagina di ZMEscience indicata in fine del post. Analogamente l’altra pagina web di Youtube mostra alcuni esperimenti di combustione ed esplosione in microgravità, che aiutano a comprendere come le forze agiscano sul sistema in esplosione e come la gravità abbia un ruolo che non capiamo a prima vista, sulla geometria degli effetti.
Questi aspetti tecnici possono aiutarci a districare la matassa politica che c’è dietro l’esplosione?
In piccola parte; nel senso perché usare due esplosivi solo in parte adeguati, con bilancio di ossigeno negativo e dovendone usare di più? Certo sono esplosivi diffusi, comuni in ambito militare e anche sicuri per chi li mette in posizione, in ambienti ostili come sott’acqua.
Quindi la loro scelta potrebbe essere stata indirizzata sia da motivi di praticità che di opportunità e questo vale chiunque ne sia stato l’attore; secondo Seymour Hersch, famoso giornalista americano che ha vinto il premio Pulitzer, gli attentati furono messi in campo dagli USA, ma potrebbero aver usato agenti ucraini; la scelta degli esplosivi senza riscontri tecnici approfonditi condotti in loco non può dare molto aiuto.
Lo sapremo quando tutta la storia si sarà sedimentata e resa non segreta come certamente è ancora adesso nei documenti ufficiali.
In quegli impianti c’erano anche soldi europei e dunque nostri, un po’ di chiarezza in merito non farebbe male.
Consultati:
https://www.chimicifisicicampania.it/image/catalog/Chimica%20esplosiva_Trifuoggi_Salerno%2014122019.pdf una bellissima presentazione del collega Marco Trifuoggi di UniNa, tenuta a Salerno nel 2019, che vi consiglio per la chiarezza e completezza espositiva.
https://www.zmescience.com/feature-post/underwater-explosion-feature/una pagina veramente esplosiva, fatta di brevi video ad altissima velocità che scoprono gli effetti più spettacolari delle esplosioni subacquee, molto interessante.
fra gli esperimenti più spettacolari fatti sulla stazione spaziale o in microgravità e che svelano alcuni aspetti trascurati delle fiamme e delle esplosioni.
https://docente.unife.it/paolo.pini/la-guerra-provocata/un-anno-di-bugie-sul-nord-stream-di-seymour-hersh/view https://en.wikipedia.org/wiki/RDX https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2667134421000444La chimica del Leone di San Marco
Luigi Campanella, già Presidente SCI
Gli indicatori isotopici sono il rapporto tra diversi isotopi stabili di un elemento chimico, utilizzato per studiare il movimento e l’origine di sostanze in vari contesti, tra cui l’ambiente, gli alimenti e la geologia. Elementi come carbonio, ossigeno, idrogeno, azoto e zolfo hanno isotopi stabili (ad esempio, 12C e 13C) in proporzioni variabili in natura.

https://pubs.acs.org/doi/pdf/10.1021/es504683e?ref=article_openPDF
Le piccole deviazioni in questi rapporti, rispetto a standard internazionali, sono cruciali per differenziare i campioni e tracciare i percorsi. I campioni vengono trasformati in gas (come CO2) e analizzati tramite uno spettrometro di massa per determinare il rapporto tra gli isotopi. I risultati vengono espressi come valore δ in parti per mille (‰).
L’analisi di questi rapporti, permette di tracciare cicli geochimici, identificare frodi alimentari, monitorare l’inquinamento e studiare i cambiamenti climatici passati, come si osserva nella stratigrafia isotopica.
Oggi questa tecnica analitica, che nei libri storici di Analisi Chimica rientrava nei metodi radiochimici (gli altri erano gli ottici, i cromatografici, gli elettrochimici) è risultata preziosa in mano ai ricercatori dell’Università di Padova e dell’ISMEO di Roma per dirimere una questione storica e culturale insieme circa la provenienza del Leone in bronzo che si erge in cima a una delle due grandi colonne della Piazzetta di Piazza San Marco a Venezia.

Per esso allo stesso tempo valgono tre considerazioni: rappresenta il Leone Alato veneziano, potente simbolo di sovranità, fu installato in un periodo di incertezza politica nell’Europa mediterranea medievale, le sue caratteristiche non riflettono le convenzioni artistiche locali
Molte speculazioni circondano le origini e l’identità culturale del grande ‘Leone’. Le ipotesi sulle sue origini includono una fonderia veneziana del XII secolo d.C. (Pilutti Namer 2013 ) o una località non specificata in Anatolia o nella Siria settentrionale nel periodo ellenistico (323-30 a.C.) (Ward Perkins 2015), con possibili influenze romaniche, gotiche, assire, etrusche, sassanidi e cinesi (Elam1990 ).
BM Scarfì (Scarfì1990 ) considerava il “Leone” un’interpretazione ellenistica dei grifoni mesopotamici o persiani con testa di leone, realizzati nel IV o III secolo a.C. come veicolo di Sandon, divinità della città di Tarso in Turchia, raffigurato sulle monete in groppa a un grosso gatto cornuto.

Oggi la provenienza cinese orgoglio dei veneziani e della discendenza da Marco Polo trova, grazie alla Chimica, una conferma. Partendo da parallelismi stilistici che si trovano nella Cina della dinastia Tang (618-907 d.C.) ed utilizzando l’analisi degli isotopi di piombo, viene dimostrato che la figura è stata fusa con rame isotopicamente compatibile con il minerale proveniente dal bacino del Basso Fiume Azzurro (il fiume Yangtzi)*.
È possibile che il padre e lo zio di Marco Polo, durante i quattro anni trascorsi alla corte di Kublai Khan durante il loro primo viaggio, siano stati responsabili dell’acquisizione della scultura. Al di là dello specifico risultato acquisito in questo caso da chimico non posso non essere orgoglioso del ruolo della nostra disciplina nel tramandare e sostenere le tradizioni culturali così contribuendo anche a difendere le identità storiche e ad educare i giovani al rispetto del proprio passato, come irrinunciabile componente del presente e del futuro, rispettivamente come insegnamento e come progetto.
Da leggere anche le conclusioni del lavoro di Artioli et al.
Contrariamente alle narrazioni tradizionali che ipotizzavano una produzione locale, anatolica o siriana, riteniamo che il muso e la criniera della creatura ibrida in bronzo presentino somiglianze con lo zhènmùshòu della dinastia Tang (anche se, in linea di principio, non si possono escludere confronti con sculture cinesi precedenti e successive). È possibile che il padre e lo zio di Marco Polo, durante i quattro anni trascorsi alla corte di Kublai Khan durante il loro primo viaggio, siano stati responsabili dell’acquisizione della scultura. L’analisi degli isotopi di piombo del bronzo conferma l’origine cinese, identificando probabili fonti di rame nella regione del basso fiume Yangzi. A causa della sconcertante assenza di informazioni scritte, le intenzioni e la logistica alla base del suo viaggio verso Venezia rimangono elusive e aperte all’interpretazione. Se l’installazione del “Leone” aveva lo scopo di inviare un forte messaggio politico difensivo, ora possiamo anche leggerla come un simbolo dell’impressionante interconnessione del mondo medievale.
* Il Fiume Yangtzi non è azzurro nel colore dell’acqua, ma viene definito così dagli occidentali per la sua bellezza, trasparenza e per il colore che assume verso il tramonto, quando sembra confondersi con il cielo. Il nome originale cinese è “Chang Jiang”, che significa “Lungo Fiume”,
La negazione della negazione.
Claudio Della Volpe
Credo che Guido Barone, un nostro collega di Napoli scomparso qualche anno fa (nel giugno del 2016) mi avrebbe dato ragione per aver scelto il titolo di questo post. Guido non era solo uno scienziato, era uno scienziato che non aveva paura della filosofia e nel caso specifico della dialettica, l’idea che era alla base di parecchia della filosofia del XVIII e XIX secolo: diceva sempre Ogni cosa nel mondo ha due corni, in sostanza riconoscendo la natura complessa e contraddittoria della realtà.
La CO2, un gas naturale, su cui è basata la vita sulla Terra: contribuisce in modo determinante al mantenimento della temperatura del pianeta, serve alla fotosintesi e si trasforma nel manto verde che ricopre il pianeta, ma è anche il prodotto delle combustioni di tutti i fossili che estraiamo dalla terra e che una volta, in origine erano appunto CO2 gassosa, trasformata dall’azione delle piante e dei batteri e dalle forze geologiche.
Solo che, dato che la quantità diventa qualità (avrebbe sempre detto Guido, non io), troppa CO2 immessa in atmosfera tutta insieme produce danni enormi e si trasforma da molecola preziosa in molecola rischiosa; alcuni addirittura la confondono con le sostanze tossiche che pure si trovano in atmosfera (e questa è una sciocchezza). Il trucco, avrebbe aggiunto un altro chimico “diverso”, che amava le contraddizioni, Enzo Tiezzi, sta nel tempo; il tempo storico brevissimo in cui bruciamo, confligge con quello biologico lunghissimo in cui il ciclo del carbonio si svolge naturalmente.
Questa sarebbe la negazione, una molecola naturale preziosissima, che passando per l’azione umana diventa il suo contrario: un gas climalterante che non riusciamo a controllare più e che sta alterando la temperatura planetaria e il pH oceanico con danni enormi.
E già, direte voi, passi pure sta voglia di filosofare; ma la negazione della negazione che sarebbe?

Beh per capire questo vi ricordo un libro scritto pochi anni fa da uno di noi che pure conoscete bene, tal Gianfranco Pacchioni, che ha avuto l’ardire di proporre il titolo seguente: W la CO2. Possiamo trasformare il piombo in oro?Cosa voleva dire il Pacchioni? Dopo aver ricostruito il ruolo complesso e complicato del gas naturale Gianfranco si è messo a ricordare che da esso la chimica è in grado di ricostruire le molecole organiche originali e che dunque questo rischioso gas che troviamo ormai in relativa abbondanza (ma non gratis perché occorre estrarlo e purificarlo) in atmosfera potrebbe diventare una risorsa chimica non banale da cui ricavare, come fanno le piante, molecole utili e complesse, ritornando a giocare dunque un ruolo positivo ed utile.
Questo diede origine subito ad una discussione non banale. Un altro collega impegnato su questi temi, Nicola Armaroli criticò l’approcciò di Gianfranco; ho chiesto a GoogleAI cosa ne pensava e mi ha risposto:
Armaroli è uno scettico riguardo all’idea di Gianfranco Pacchioni di utilizzare l’idrogeno per trasformare l’anidride carbonica (CO2) in sostanze utili o combustibili. Pacchioni, autore del libro “W la CO2”, propone questa soluzione, ma Armaroli, chimico e dirigente di ricerca presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, solleva dubbi sulla fattibilità del progetto a causa delle presunte complessità.
Una volta tanto la pappagalla stocastica non ha allucinazioni; ci sono delle complessità nella negazione della negazione che Gianfranco ha proposto; ci vuole energia e una lunga serie di reazioni chimiche per assorbire il gas dall’atmosfera o dai siti di combustione e tramite la reazione di Sabatier, trasformarla in metano che è più facile e sicuro da stoccare sia dell’idrogeno che della stessa CO2. I costi energetici sarebbero comunque enormi e finora impianti di questo tipo non esistono.
Oggi sappiamo che certi processi si possono fare anche elettro-chimicamente, per esempio con le batterie calcogeno-CO2, che sono capaci perfino di assorbire CO2 e produrre energia contemporaneamente; qui il trucco starebbe nell’aver prima prodotto l’elemento calcogeno scelto (i calcogeni sono gli elementi del gruppo 16 o VIa o 6a) che pure ha il suo costo energetico. Sempre meglio che usare la CO2, come semplice gas che accumula energia nella transizione di fase come ha fatto l’ENI in un piccolo impianto sperimentale in Sardegna (Energy Dome), che comunque non è inutile, ma forse ha troppe limitazioni.
Però il problema rimane: come accumulare energia dalle rinnovabili e coprire le notti e i periodi invernali o comunque le irregolarità produttive inevitabili?
Ho scritto varie volte che ci sono solo due modi: o si costruisce una unica rete mondiale dell’elettricità, come sognava Buckminster-Fuller, sfruttando il fatto che un emisfero è sempre al Sole e un emisfero è sempre in estate (facile da dire ma difficile da fare soprattutto per motivi politici al momento) oppure costruire in ogni paese o blocco di paesi grandi accumuli di energia, la cui scala deve essere gigantesca che dovrebbero avere come dimensione tipica il TWh (al momento non ne abbiamo nessuno) e non sapremmo nemmeno come costruirli. I nostri impianti di accumulo italiani, basati sull’idroelettrico, in un ciclo unico di carica e scarica, in tutto stoccano 0.1TWh; ossia per un ciclo singolo di carica e scarica potrebbero fornire energia per qualche ora a potenza piena, non per giorni o settimane.
La negazione della negazione, proposta da Gianfranco è una possibilità, passando per la reazione di Sabatier o casomai usando l’ammoniaca o qualche altro sistema “semplice” e scalabile; nonostante le inevitabili perdite quella rimane una possibilità.
Certo anche fare batterie elettrochimiche giganti, in flusso o basate su ioni sodio o litio o con metodi non ancora inventati o scalati a dimensione industriale è possibile; il fatto è che non abbiamo molto tempo; la temperatura è GIA’ aumentata di oltre 1.5°C sul livello medio dell’inizio del periodo della Rivoluzione industriale (XVIII -XIX sec.); non possiamo basarci su cose che non esistono ancora, non ne abbiamo più il tempo; se no faremmo la fine di chi continua a sognare la fusione nucleare o le centrali da fissione di generazione n+1; noi siamo Chimici e di solito siamo legati alla “materia bruta” (quella di Levi) e teniamo fede ai patti.
Inoltre abbiamo qualche responsabilità in merito: siamo stati proprio noi a perfezionare le combustioni portandole al livello attuale; e mi piace ricordare che pure lì abbiamo scoperto una negazione della negazione: la fiamma è il simbolo delle combustioni storiche (che a loro volta distruggono il combustibile di partenza e dunque lo negano); beh si è scoperto che in realtà la fiamma non aiuta la combustione ad essere efficiente e l’abbiamo abolita, si è visto che le migliori e più efficienti combustioni sono quelle senza fiamma, flameless. I processi flameless, che aboliscono le fiamme, sono più efficienti di quelli con le fiamme, li negano e li superano. Che ve ne pare?
Bella rivincita per Hegel e gli altri che hanno sviluppato la dialettica (e non pensate solo a Marx ma anche a tanti scienziati della Natura come JD Bernal, R Levins o JBS Haldane, R Lewontin e SJ Gould e tanti altri che non ho il tempo di ricordare).


Ed anche per chi come me ha passato un anno di liceo a leggere la Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito. Secondo me Guido se la sta ridendo dovunque sia.