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Termo-ossidatore per le armi chimiche.

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 20 December, 2023 - 08:55

Luigi Campanella, già Presidente SCI.

L’Italia è fra i 193 Paesi che hanno aderito alle convenzioni internazionali, a partire da quella di Parigi del 1993, che prevedono la distruzione di tutte le armi chimiche, anche di provenienza estera, presenti sul territorio, alcune risalenti alla 2 guerre mondiali altre più recenti, operazione in linea con il fatto che il 99% delle armi chimiche stoccate nel mondo è stato già distrutto. La distruzione avverrà in un inceneritore (NdB previsto dalla nuova finanziaria) che costerà 29 milioni di euro e sarà operativo nel 2025 (NdB: la posizione dell’impianto è coperta da segreto). Le armi chimiche ancora presenti sul nostro territorio sono costituite da munizioni inesplose e da numerosi composti chimici quali fosforo bianco, iprite, cloro, fosgene.

In effetti in Italia esiste già un Centro che raccoglie le armi chimiche che nel frattempo vengono trovate: si tratta di una struttura tecnicamente molto avanzata collocata a Civitavecchia (CETIL). Vengono qui conservate sostanze pericolosissime, a partire da oltre 2000 proiettili al fosforo bianco che richiedono un monitoraggio scrupoloso e continuo ai fini della sicurezza civile. Il processo di smaltimento deve essere però accelerato proprio per gli stessi motivi. Da qui l’impegno a costruire una nuova struttura.

La scelta tecnica è caduta su un termo-ossidatore pirolitico, in attesa del quale si potenzia il Centro esistente con ulteriore finanziamento di oltre 2 milioni di euro. Il problema principale, va ribadito assolutamente, è che in attesa della completa rimozione, la sicurezza è a rischio come dimostrano alcuni casi di persone che inoltratesi nei boschi vicino al Centro sono state offese o hanno sofferto per inalazione di fosgene.

La scelta del metodo di distruzione delle armi chimiche deriva dalle loro proprietà chimiche variate e quindi richiedenti metodi aggressivi di demolizione. Il fosforo bianco è un potente “disidratante”* in quanto (NdB: dopo reazione con ossigeno) si lega all’acqua e produce acido fosforico che distrugge completamente il tessuto organico. Il cloro è un potente ossidante soffocante ed irritante, il fosgene lo è ancora di più, essendo capace di distruggere i tessuti umani, alcune mostarde hanno un’azione biologica aggredendo i componenti del sangue, a partire da globuli rossi e globuli bianchi, l’iprite è fortemente cancerogena, capace di alchilare il DNA e vescicante a causa della sua grande affinità per tutti i componenti dell’organismo umano, l’acido cianidrico si lega al ferro del sistema enzimatico umano inibendone il funzionamento.

A queste differenze attive corrispondono molecole molto diverse che richiedono quindi metodi molto aggressivi per essere certi della loro distruzione da qui la scelta della termoossidazione pirolitica, un processo di decomposizione termochimica, ottenuto mediante l’applicazione di calore e in presenza di un agente ossidante (normalmente ossigeno).

In pratica, se si riscalda il materiale in presenza di ossigeno avviene una combustione generando calore e producendo composti gassosi ossidati; effettuando invece lo stesso riscaldamento in condizioni anossiche (totale assenza di ossigeno), il materiale subisce la scissione dei legami chimici originari con formazione di molecole più semplici. Il calore fornito nel processo di pirolisi viene quindi utilizzato per scindere i legami chimici, attuando la omolisi termicamente indotta. In questo caso è chiaro che l’interesse primario è per la distruzione delle armi e l’interesse per riciclare molecole più piccole da esse provenienti completamente assente.

https://tg24.sky.it/cronaca/2023/11/24/armi-chimiche-scorie-impianto-italia#00

https://www.ilmessaggero.it/politica/armi_chimiche_italia_impianto_civitavecchia_pericoli_residenti-7772477.html

*Nota del blogmaster: il fosforo bianco non è considerato arma chimica da tutti i paesi, nonostante il suo meccanismo di azione. Si noti inoltre che diventa disidratante DOPO la reazione con l’ossigeno; infatti può venir conservato sott’acqua. Per una descrizione più precisa dei suoi effetti si veda https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/white-phosphorus. Ringrazio il collega Biffis per le gradite osservazioni.

Efficienza e sufficienza                                

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 16 December, 2023 - 10:31

Vincenzo Balzani, professore emerito UniBo.

(testo comparso su supplemento Bo7 di Avvenire del 10 dicembre 2023)

Per combattere il cambiamento climatico è necessario portare a termine la transizione energetica dai combustibili fossili alle energie rinnovabili del Sole, del vento e dell’acqua, convertendole poi nelle forme di energia di uso finale (elettrica, termica e meccanica). La scienza e la tecnologia hanno come obiettivo il compimento della transizione energetica e anche l’aumento dell’efficienza di tutti i processi e le apparecchiature che ci forniscono energia nella vita di tutti i giorni, costruite con le risorse materiali che ci fornisce la Terra.  

Per diminuire il consumo di energia si punta molto sull’aumento dell’efficienza energetica, definita come rapporto, o altra relazione quantitativa, tra i risultati ottenuti in termini di prestazioni, servizi, beni, o energia e la quantità di energia usata per ottenerli. A prima vista, infatti, sembra logico pensare che l’aumento nell’efficienza energetica possa produrre vantaggi molto consistenti. In realtà, si è constatato che nella UE dal 1998 al 2012 i frigoriferi e i congelatori sono diventati più efficienti del 75% e le lavatrici del 63%, ma il consumo di energia elettrica è aumentato. In tutti i paesi sviluppati, in effetti, ogni anno si consuma sempre più energia, sia pure in un modo via via più efficiente.

Il paradosso di Jevons e il cambiamento climatico

Questo risultato è dovuto al cosiddetto “effetto rimbalzo”*: l’aumento di efficienza incoraggia un maggior uso di servizi forniti dall’energia. Un caso tipico è quello dell’automobilista che, dopo aver finalmente deciso di comprare un’auto più efficiente, è talmente compiaciuto dal minor consumo chilometrico della nuova auto che finisce con l’usarla più frequentemente dell’auto che aveva prima. L’aumento di efficienza, il “fare con meno”, non è una soluzione, bensì parte del problema; in ultima analisi, può essere addirittura controproducente.

In effetti, è illusorio pensare di ridurre il consumo di energia (o di altre risorse) agendo solo sulle cose, cioè aumentando l’efficienza delle apparecchiature che usiamo, o inventandone nuove per fare gli stessi servizi. Se si vuole realmente consumare meno energia (e altre risorse) per contribuire alla sostenibilità ecologica, bisogna anzitutto agire sulle persone. Bisogna partire dal concetto di sufficienza e convincere, sollecitare “gentilmente” (come suggerisce il premio Nobel per l’economia R.H. Thaler) e, se necessario, obbligare le persone, con leggi e sanzioni, a ridurre l’uso dei servizi energetici. Per risparmiare realmente energia, infatti, non basta “fare con meno”, bisogna, anzitutto, “fare meno”: meno viaggi, meno luce, meno riscaldamento, meno prodotti inutili, minor velocità.  Se poi, dopo aver adottato la strategia della sobrietà, tutto quello che si fa lo si fa in un modo più efficiente, si avrà un risparmio ancora maggiore: è il “fare meno (sobrietà) con meno (efficienza)”. Sobrietà ed efficienza, da sole, non possono dare risultati concreti. Quello che si deve fare è massimizzare, per così dire, il prodotto sobrietà x efficienza.

*Nota del blogmaster: il paradosso di Jevons (detto anche postulato di Khazzoom-Brookes) citato nelle figure è uno dei tre casi possibili dell’effetto rimbalzo che è il caso più generale.

In ricordo di Massimo Scalia

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 13 December, 2023 - 12:29

Luigi Campanella, già Presidente SCI

L’ambientalismo con la scomparsa di Massimo Scalia perde un rappresentante impegnato e competente. Lo posso dire con assoluta certezza per i numerosi dibattiti scientifici che ho avuto con lui e con Gianni Mattioli da quando entrambi erano professori della Facoltà di Scienze MFN di Sapienza Università di Roma che avevo l’onore di presiedere. Da sempre contrario al nucleare Massimo aveva però chiaro sin da quegli anni, 40 e più anni fa che le fonti fossili di energia dovevamo essere sostituite progressivamente dalle rinnovabili.

Chi fosse Massimo Scalia e cosa perdono questo Paese e l’ambientalismo lo si capisce leggendo il sunto del suo curriculum scientifico pubblicato dalla Sapienza: «Laureato in Fisica nel 1969 presso la “La Sapienza”, con una tesi di Fisica Teorica Nucleare, ha continuato le ricerche in tale disciplina negli anni immediatamente successivi: le possibili rappresentazioni tramite le algebre di Lie delle “simmetrie” dei decadimenti beta; lo studio della “materia nucleare”, nel formalismo delle espansioni ipergeometriche. Dalla metà degli anni ’70 si è orientato verso la ricerca sulla stabilità e sull’’analisi qualitativa dei sistemi dinamici, in particolare la generalizzazione della biforcazione di Hopf, secondo le classiche teorie sviluppate a partire da Poincare e da Lyapunov. Dagli anni ottanta si è inoltre interessato delle interazioni tra campi elettromagnetici e sistemi biologici (bioelettromagnetismo), degli effetti dei “campi deboli” e del ruolo del “rumore termico” nei materiali biologici. Su queste tematiche partecipa, insieme a ricercatori di altre università e istituti italiani, a un programma di ricerca dell’Unione Europea (FP VII). E’ titolare di un programma di ricerca del’l’AST sulla teoria dei sistemi dinamici non lineari e sulle applicazioni alla Matematica, alla Fisica e alla Biologia. E’ responsabile di un accordo bilaterale di collaborazione scientifica con il Politecnico dell’Universià di Kiev (KPI).

Le pubblicazioni più significative degli ultimi cinque anni di Massimo Scalia sono reperibili sul sito on line dedicato de “La Sapienza”.

Sul sito htpp://sae.uniroma1.it/ è reperibile, alla voce Approfondimenti, il testo di divulgazione scientifica sul rapporto tra energia e cambiamenti climatici».

I grandi meriti di Massimo Scalia vanno al di là del valore scientifico perchè quello che caratterizzava Massimo era mettere questo valore al servizio della comunità con un linguaggio semplice e coinvolgente insieme che molto lo ha aiutato nell’attività di divulgazione scientifica che è stato uno dei più intensi motivi e fonti di contatto con me. Non posso non ricordare i frequenti scambi con lui e Gianni circa l’opportunità o meno di trasformare un movimento in un partito. Non avevamo la stessa opinione, ma lui già politico affermato, non rinunciava a spendere tempo con il “suo preside”, come diceva lui per convincerlo della bontà della sua scelta.

Finisco con un ricordo tennistico: ero a quel tempo molto forte in terza categoria e Massimo diceva “non posso chiederti di giocare con me“, invece lo facevamo ed erano altre occasioni di dibattito nei quali francamente il tennis non era la componente principale.

Suo ultimo articolo contro i piccoli reattori nucleari: https://www.qualenergia.it/articoli/il-piccolo-atomo-e-vecchio/

https://it.wikipedia.org/wiki/Massimo_Scalia

Nuove scoperte sui PFAS.

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 10 December, 2023 - 10:26

Claudio Della Volpe

Questo post cerca di fornire i dati più recenti sulla situazione PFAS nel nostro paese e nel mondo. Personalmente considero questo tipo di inquinamento il più grave segno di compromissione ambientale recente e non sono il solo visto che è considerato in letteratura come lo sforamento di un limite planetario con effetti sul ciclo dell’acqua per secoli a venire (ne abbiamo parlato qui).

Il cammino dei PFAS (da Sci. Am.)

Le cosiddette “sostanze chimiche per sempre” sono sostanze prodotte dall’uomo composte da perfluoroalchilici e polifluoroalchilici (PFAS) e si trovano in prodotti come cosmetici e shampoo e nei rivestimenti idrorepellenti per pentole antiaderenti e imballaggi alimentari. Vengono lavati negli scarichi e gettati nelle discariche, e quindi sono diventati onnipresenti nell’ambiente. Un nuovo studio condotto da ricercatori della Florida International University ha tracciato la precisione con cui i PFA entrano nell’oceano al largo della costa della Florida.
La contaminazione delle acque reflue, dovuta a sistemi settici che funzionano male o non aggiornati e perdite di acque reflue nelle aree urbane, è diventata una delle principali fonti di PFA nei corsi d’acqua. Un altro sono le strutture militari e aeroportuali, dove la schiuma acquosa filmogena si riversa nei corsi d’acqua locali. Le concentrazioni di PFAS erano più alte nei canali che drenavano nelle baie, sono diminuite lungo le baie e sono diminuite man mano che l’acqua dell’oceano diventava più profonda e più salina, il che rende i PFAS meno solubili in acqua.
  Perché è importante: sapere come la maggior parte di queste sostanze chimiche entra nell’ambiente potrebbe aiutarci a evitarne il rilascio. Un recente studio governativo ha stimato che queste sostanze chimiche erano presenti in almeno il 45% dell’acqua del rubinetto negli Stati Uniti e si ritiene che una grande percentuale di americani abbia livelli rilevabili di PFAS nel sangue. Le sostanze chimiche sono state collegate a disturbi immunologici, disturbi endocrini, dello sviluppo, riproduttivi e neurologici e aumento del rischio di cancro alla vescica, al fegato, ai reni e ai testicoli. In ambiente marino influenzano il sistema immunitario e la funzionalità epatica di pesci e mammiferi marini.  
La situazione in Florida ci richiama a quanto sappiamo nel nostro paese al di fuori delle due aree fortemente inquinate in Piemonte (Spinetta Marengo) e in Veneto, a valle dello stabilimento Miteni (Trissino). Su questo un esempio sono i dati resi pubblici da Green Peace Italia durante l’anno per la Lombardia. Nella mappa sotto sono riportati alcuni del 4000 risultati ottenuti dalle istituzioni pubbliche su richiesta dell’associazione ambientalista dei quali 738, dunque un po’ meno del 20% sono positivi ai PFAS per valori fra i 5 e i 1146 ng/l nelle acque potabili o usate a questo scopo. Interessante il confronto delle posizioni fra GreenPeace e le istituzioni lombarde. Le seconde sostengono che le acque sono sicure i primi invece dicono che sforano i valori più conservativi proposti a livello mondiale (USA e Danimarca). In effetti in EU vige la norma che trovate qui:
PFAS Totale 0,50 μg/l Per «PFAS — totale» si intende la totalità delle sostanze per- e polifluoro alchiliche. Tale valore di parametro si applica esclusivamente dopo l’elaborazione di orientamenti tecnici per il monitoraggio di tale parametro in conformità dell’articolo 13, paragrafo 7. Gli Stati membri possono quindi decidere di utilizzare uno o entrambi i parametri «PFAS — totale» o «Somma di PFAS».
Somma di PFAS 0,10 μg/l Per «somma di PFAS» si intende la somma di tutte le sostanze per- e polifluoro alchiliche ritenute preoccupanti per quanto riguarda le acque destinate al consumo umano di cui all’allegato III, parte B, punto 3. Si tratta di un sottoinsieme di sostanze «PFAS — totale» contenenti un gruppo perfluoroalchilico con tre o più atomi di carbonio (vale a dire –CnF2n–, n ≥ 3) o un gruppo perfluoroalchiletere con due o più atomi di carbonio (vale a dire –CnF2nOCmF2 m–, n e m ≥ 1). Siamo quindi ad un massimo di 500 e di 100 nanogrammi/litro per i due criteri (tutti i pfas o solo i 4 più “preoccupanti”); mentre in USA il criterio è sotto la determinazione strumentale (considerata come livello zero) e in Danimarca 2 nanogrammi/litro. I criteri europei sono dunque peggiori di quelli di USA e Danimarca.      



https://public.tableau.com/app/profile/greenpeace.italy/viz/PFAS_Lombardia/PFAS_COMUNI https://www.ilgiorno.it/cronaca/acque-potabili-inquinate-pfas-cosa-sono-y0eclciv     Sappiamo già che i PFAS possono arrecare danni seri all’organismo ma la cosa più preoccupante è quella legata ad una recentissima pubblicazione su The Lancet Oncology. Nel novembre 2023, un gruppo di lavoro di 30 scienziati provenienti da 11 paesi si è riunito presso l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) a Lione, in Francia, per finalizzare la valutazione della cancerogenicità di due agenti: l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS), compresi i corrispondenti isomeri e sali.
Il lavoro è riassunto nell’infografica qui sotto:


le sostanze prese in considerazione sono PFOA e PFOS, la prima è considerata carcinogenica per l’uomo e la seconda possibilmente carcinogenica per l’uomo. Ricordiamo che lo IARC è il braccio sperimentale dell’OMS che analizza il pericolo di una sostanza chimica non il rischio nei confronti del cancro. Ne abbiamo parlato ampiamente in relazione al glifosato (qui e qui). Dunque queste ricerche dicono che c’è il pericolo di scatenare un tumore ma non si valuta il rischio concreto in condizioni di esposizioni date; questo è compito di ECHA o delle istituzioni che decidono nei vari paesi; ricordiamo anche che i criteri dello IARC sono MOLTO stringenti, e anche molto attenti ai conflitti di interesse presenti in molte pubblicazioni e non sempre rilevati, tanto che anche sostanze comuni come l’alcol etilico ci rientrano, pur essendo usate da miliardi persone e da secoli. Tuttavia questa è la situazione concreta. L’alcol etilico è cancerogeno per l’uomo, come i PFAS, ma almeno sappiamo se e quanto ne beviamo (non rinuncerò al mio bicchiere di vino bianco in occasioni conviviali, o in rari casi al bicchiere della staffa), mentre nel caso dei PFAS (o del glifosato) non sappiamo nemmeno se ci sono, non sono indicati in etichetta, ma sono presenti nella pioggia o si accumulano nei tessuti grassi.  https://www.iarc.who.int/news-events/iarc-monographs-evaluate-the-carcinogenicity-of-perfluorooctanoic-acid-pfoa-and-perfluorooctanesulfonic-acid-pfos/  https://monographs.iarc.who.int/news-events/volume-135-perfluorooctanoic-acid-and-perfluorooctanesulfonic-acid/   Piuttosto la questione potrebbe essere complessa perché ci sono moltissimi composti perfluoroalchilici o polifluoroalchilici (un numero che si trova in rete è questo: 4000 sono stati sintetizzati dall’uomo e alcune centinaia di essi rinvenuti in campioni biologici (J Expo Sci Environ Epidemiol. 2019 March ; 29(2): 131–147. ); sono tutti pericolosi? Non lo sappiamo ancora. Ma ci sono alcune cose da notare; c’è una notevole incertezza sulla definizione di PFAS che è stata aggiornata nel 2021 (Environ. Sci. Technol. 2021, 55, 15575−15578) https://pubs.acs.org/doi/epdf/10.1021/acs.est.3c04855
Quanti sono i PFAS? Al settembre 2023 i composti presenti in PubChem erano 116milioni; di questi 21milioni sono fluorurati e 7 milioni rientrano nella definizione di PFAS proposta nel 2021 dall’OECD. Questo numero rappresenta un salto enorme rispetto alla stima comunemente fatta negli anni precedenti (per esempio Trier, X.; Lunderberg, D. S9 | PFASTRIER | PFAS Suspect List: Fluorinated Substances. Zenodo, 2015. DOI: 10.5281/zeno- do.2621989. ) che conteneva circa 4700 composti. Ovviamente tutto dipende dalla definizione usata che è la seguente. PFAS are defined as fluorinated substances that contain at least one fully fluorinated methyl or methylene carbon atom (without any H/Cl/Br/I atom attached to it), i.e. with a few noted exceptions, any chemical with at least a perfluorinated methyl group (CF3) or a perfluorinated methylene group (CF2−) is a PFAS.”  

Questi numeri fanno pensare parecchio perché mostrano con chiarezza il problema posto da sintesi chimiche che DI FATTO non sono rispettose dell’ambiente: in natura conosciamo un numero molto basso di composti organofluorurati (non è un dato facile da stimare, ma nel 2005 la stima era di alcune decine di composti!! mentre su Nature del 2012 con riferimento ad un lavoro del 94 il numero era stimato a 12 ; occorre anche dire che invece fra i composti inorganici che contengono alogeni il fluoro è maggioranza) e la cosa ha senso perché come sappiamo bene il legame CF è il legame più forte fra i legami carbonio-alogeno; ne segue che non conosciamo o conosciamo pochissimi esempi di enzimi capaci di rompere questo legame e dunque di metabolizzare i composti organofluorurati, i quali tendono ad accumularsi in biosfera. Al contrario noi umani abbiamo una percentuale di composti organofluorurati sintetici (PubMed) di quasi 1 ogni 5! Perché questo avviene? Questo avviene proprio perché i composti organofluorurati sono “stabili”, non avendo vie metaboliche o naturali di degradazione e dunque sono più efficaci come antibiotici, come farmaci in genere, come pesticidi e così via; i composti perfluorurati sono estremamente stabili; e dunque sembrano una manna dal cielo. La loro rarità fa si che i sistemi biologici siano “indifesi” rispetto alla loro azione, qualunque essa sia. Ma basta introdurre in catena degli eteroatomi perché questo possa indurre un potenziale attacco e dunque l’inizio di una lenta degradazione, che non impedisce però l’accumulo e l’effetto cresce al crescere della quota di catena perfluorurata. La superattività dei composti fluorurati dovuta a questa stabilità la paghiamo dunque come accumulo lungo la catena metabolica della biosfera. Questo dovrebbe portarci a rinunciare a questo tipo di composti se non per applicazioni assolutamente necessarie e certo non ha senso che quei composti siano presenti in così gran numero nella nostra tecnologia. Una ultima considerazione riguarda il loro meccanismo di azione biologico; una recente ricerca supporta l’idea che molecole diverse di PFAS inducano modifiche simili di tipo trascrizionale  (il trascrittoma comprende l’insieme delle molecole di RNA presenti in una cellula di un dato tessuto in un dato momento), fra specie diverse e questo è uno step importante per iniziare a capire gli effetti che producono.  

Riciclo della plastica, come si fa?

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 6 December, 2023 - 10:09

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La recente diatriba fra i sostenitori del riuso e quelli del riciclo degli imballaggi nasce chiaramente da interessi prevalentemente economici. Non si tratta in genere di capacità di un Paese in una direzione o nell’altra, ma forse proprio l’Italia rappresenta l’eccezione virtuosa. Venendo infatti al materiale per imballaggi fra i più diffusi, la plastica, la scelta dell’Italia rispetto all’alternativa riuso/riciclo e stata invece dettata dalle capacità tecniche.

L’economia circolare ha esaltato nel nostro Paese la pratica del riciclo lanciando, nel caso della plastica, due opzioni principali, quella meccanica e quella chimica.

Mentre la prima produce materiali non puri, spesso miscele, non separati da tutti gli inquinanti contenuti nello scarto riciclato, non può essere ripetuta per un numero molto elevato di volte, il riciclo chimico produce i monomeri puri del polimero riciclato e miscele di idrocarburi che possono fungere da materia prima di molti processi a partire da quelli di produzione della stessa plastica di partenza con evidenti vantaggi economici ed è applicabile a plastica difficilmente riciclabile meccanicamente.

Il riciclo chimico inoltre può essere ripetuto teoricamente per un numero infinito di volte.

L’ affermazione piena del riciclo chimico della plastica è contrastata dai bassi costi della materia prima rispetto a quelli della materia prima seconda lievitati proprio dai costi dei processi di riciclo chimico.

I processi di riciclo chimico della plastica sono

-Depolimerizzazione che comporta la rottura della catena polimerica, rottura che può portare ai monomeri o a polimeri intermedi. Si tratta del metodo di riciclo più utilizzato con l’unico inconveniente che può applicarsi solo ai polimeri di condensazione, non a quelli di addizione. Un caso particolare della depolimerizzazione è il cracking catalitico in cui la depolimerizzazione è strettamente legata alla scelta di un opportuno catalizzatore

-Pirolisi (trattamento termico a 450 gradi in assenza di ossigeno) con produzione di miscele di idrocarburi

-Gassificazione: inizialmente applicata alla produzione del gas di sintesi, poi applicata ai rifiuti polimerici, produce gas da destinare a scopi chimici ed energetici, a partire direttamente da miscele, quindi senza separazione preliminare, di materiali plastici.

Idrogenazione mediante azione combinata di calore, idrogeno e catalizzatore con produzione di idrocarburi saturi direttamente applicati alla combustione

-Termolisi: decomposizione termica, ma in ambiente inerte

Un mondo più salato.

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 2 December, 2023 - 09:27

Claudio Della Volpe

Quando parliamo di sale nel linguaggio comune ci riferiamo al sale da cucina, ossia NaCl che è un componente essenziale di vari cibi e per secoli è stato anche un prezioso materiale di scambio che ha dato perfino il suo nome a varie città del mondo che si trovavano al centro di un reticolo di commercio del sale.

A parte la famosa Salisburgo esiste una rete  europea delle città del sale  che comprende dall’affascinante Aigue Mortes nella Camargue (foto qui sotto) alla nostra Cervia.

Il sale era così importante che l’integrazione della retribuzione che veniva data ai legionari e ai magistrati romani era a base di sale, a quel tempo sostanza rara e preziosa e ha generato la parola italiana “salario” con riferimento al pagamento in sale delle ore di lavoro effettuate nella giornata

Ma per un chimico sale è una espressione dal senso più ampio perché include un numero enorme di composti costituiti da ioni di segno opposto disposti in un reticolo cristallino complessivamente neutro; i sali sono una parte sconfinata dei composti chimici che costituiscono la crosta terrestre.

Come si è alterato, se si è alterato, il bilancio di questi composti nell’ambiente? E’ una domanda apparentemente semplice ma che ha trovato risposta solo di recente in un articolo review comparso su una delle riviste di Nature dal titolo:

L’articolo è stato leggibile (per alcuni giorni) ma non scaricabile in formato pdf. I dati e l’analisi si riferiscono al caso americano, ma l’interpretazione è generalizzabile al pianeta intero ed ha una enorme rilevanza ecologica.

La produzione del solo NaCl è dell’ordine di 300 Mton a livello mondiale con principali produttori Cina (64), India (45), USA (42), Germania (15) mentre l’Italia produce oggi poco meno di 2Mton all’anno. La riserva principale di questo materiale è il mare, che è virtualmente inesauribile, ma esistono molte saline ossia depositi di sale geologico, anche molto lontane dal mare e che sono preziose documentazioni della passata geologia di un territorio.

Dice il riassunto iniziale:

L’aumento della produzione e dell’uso del sale sta spostando gli equilibri naturali degli ioni di sale nei sistemi terrestri, causando effetti correlati tra i sistemi biofisici noti collettivamente come sindrome da salinizzazione dell’acqua dolce. In questa review, concettualizziamo il ciclo naturale del sale e sintetizziamo le crescenti tendenze globali della produzione di sale e delle concentrazioni di sali fluviali e dei loro flussi. Il ciclo naturale del sale è guidato principalmente da processi geologici e idrologici relativamente lenti che portano diversi sali sulla superficie della Terra. Le attività antropiche hanno accelerato i processi, i tempi e le grandezze dei flussi salini e ne hanno alterato la direzionalità, creando un ciclo salino antropogenico. La produzione globale di sale è aumentata rapidamente nell’ultimo secolo per diversi sali, con circa 300 Mt di NaCl prodotte all’anno. Un bilancio del sale per gli Stati Uniti suggerisce che i flussi di sale nei fiumi possono essere all’interno di ordini di grandezza simili ai flussi di sale antropogenici e ci può essere un sostanziale accumulo di sale nei bacini idrografici. L’eccesso di sale si propaga lungo il ciclo antropogenico del sale, causando la sindrome da salinizzazione dell’acqua dolce che si estende oltre le forniture di acqua dolce e influisce sulla produzione di cibo ed energia, sulla qualità dell’aria, sulla salute umana e sulle infrastrutture. È necessario identificare i limiti e le soglie ambientali per gli ioni di sale e ridurre la salinizzazione prima che i limiti planetari vengano superati, causando danni gravi o irreversibili in tutti i sistemi terrestri.

Si tratta di un concetto introdotto per primo da un nostro collega di Siena troppo spesso dimenticato, Enzo Tiezzi, autore di un libro bellissimo dal titolo: Tempi storici e tempi biologici, in cui sostanzialmente si mettevano a confronto i cicli umani e quelli naturali notando come l’effetto prevalente del nostro modo di produrre accelera a dismisura i processi naturali mettendo in crisi i meccanismi di bilancio dei grandi cicli degli elementi; una saggezza antica, filtrata da una profonda conoscenza della chimica-fisica.

Il ciclo naturale del sale è caratterizzato da un equilibrio nel sollevamento dei sali sulla superficie della Terra e dagli agenti atmosferici e dal trasporto dei sali verso gli oceani. La salinizzazione è comunque un processo naturale in molti ambienti aridi, ma non in generale.

Il ciclo antropogenico del sale è caratterizzato da un trasporto accelerato di sali sulla superficie della Terra attraverso l’estrazione mineraria e l’estrazione di risorse, un aumento dei flussi di sale nell’atmosfera dalla polvere salina, e un aumento della salinità del suolo e della formazione di evaporiti a causa dell’essiccazione. Le fonti antropogeniche di sali superano i pozzi naturali, con un’ampia varietà di processi geologici, chimici, biologici, ingegneristici e idrologici che contribuiscono all’alterazione umana del ciclo globale del sale.

In questo occorre tenere presente che la stima della review è che i flussi di origine antropogenica siano della stessa dimensione di quelli naturali.

L’autore corrispondente Kaushal ha dichiarato:

Se si pensa al pianeta come a un organismo vivente, quando si accumula così tanto sale potrebbe influenzare il funzionamento degli organi vitali o degli ecosistemi. Rimuovere il sale dall’acqua è dispendioso dal punto di vista energetico e costoso, e il sottoprodotto della salamoia che si ottiene è più salato dell’acqua dell’oceano e non può essere facilmente smaltito.

Kaushal e i suoi co-autori hanno descritto i disturbi al ciclo naturale del sale come un “ciclo antropogenico del sale”, stabilendo per la prima volta che gli esseri umani influenzano la concentrazione e il ciclo del sale su scala globale e interconnessa.

Il coautore dello studio Gene Likens, ecologo presso l’Università del Connecticut e il Cary Institute of Ecosystem Studiesha commentato: Vent’anni fa, tutto ciò che avevamo erano casi di studio. Potremmo dire che le acque superficiali erano salate qui a New York o nell’approvvigionamento di acqua potabile di Baltimora”, “Ora dimostriamo che si tratta di un ciclo – dalle profondità della Terra all’atmosfera – che è stato significativamente perturbato dalle attività umane”.

Ora che questo processo di salinizzazione sia una novità non è del tutto vero; in realtà abbiamo notizie precise e documentate che processi analoghi sono avvenuti in un contesto di cui di solito si decanta il successo storico, ossia la nascita e lo sviluppo dell’agricoltura nella cosiddetta Mezzaluna fertile.

La Mezzaluna fertile è quella zona descritta nella figura sottostante da una fascia colorata che si estendeva dal golfo Persico all’Egitto in un contesto ambientale estremamente delicato, in cui la semplice attuazione di una irrigazione intensiva accoppiata ad un clima caldo ebbe come effetto una evaporazione accentuata ed una progressiva salinizzazione dei suoli. Questo avviene anche nell’agricoltura attuale, si badi, con esempi notevoli anche nei paesi avanzati come gli USA. Ma in uno contesto sensibile e delicato come quello della Mezzaluna portò ad un progressivo passaggio a colture sempre più resistenti alla salinizzazione (con il corrispondente cambio di potere economico e politico) ed infine ad un crollo della produttività agricola.

Nella review ci sono molti aspetti innovativi ed intriganti; prima di tutto si considerano sali diversi da NaCl perché il ciclo dei sali mobilita quantità molto grandi anche di altri anioni e cationi e in secondo luogo il lavoro considera la penetrazione del sale non solo nel terreno e nelle acque superficiali ma anche negli aerosol con effetti inaspettati.

La salinizzazione è anche associata a effetti “a cascata”. Ad esempio, la polvere salina può accelerare lo scioglimento della neve e danneggiare le comunità che dipendono dalla neve per il loro approvvigionamento idrico. A causa della loro struttura, gli ioni di sale possono legarsi ai contaminanti presenti nel suolo e nei sedimenti, formando “cocktail chimici” che circolano nell’ambiente e hanno effetti dannosi. “Il sale ha un piccolo raggio ionico e può incunearsi tra le particelle del suolo molto facilmente“, ha detto Kaushal. “In effetti, è anche così che i sali stradali prevengono la formazione di cristalli di ghiaccio“.

I sali stradali hanno un impatto enorme negli Stati Uniti, che sfornano 44 miliardi di libbre di agente antigelo ogni anno. Tra il 2013 e il 2017 i sali stradali hanno rappresentato il 44% del consumo di sale negli Stati Uniti e rappresentano il 13,9% del totale dei solidi disciolti che entrano nei corsi d’acqua in tutto il paese. Ciò può causare una concentrazione “sostanziale” di sale nei bacini idrografici, secondo Kaushal e i suoi coautori. Per evitare che i corsi d’acqua degli Stati Uniti vengano inondati di sale nei prossimi anni, Kaushal ha raccomandato politiche che limitino i sali stradali o incoraggino alternative. Washington, D.C., e molte altre città degli Stati Uniti hanno iniziato a trattare le strade gelide con succo di barbabietola, che ha lo stesso effetto ma contiene molto meno sale

Da https://www.sciencedaily.com/releases/2023/10/231031111505.htm

Cibo coltivato.

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 28 November, 2023 - 14:04

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Il Ministro Lollobrigida aveva anticipato la notizia di una legge italiana che vieta il cosiddetto “cibo sintetico” la sua importazione e commercializzazione. Il cibo “sintetico” non utilizza prodotti della terra, è di fatto indipendente dell’agricoltura (ma le cellule originali coltivate sono normali cellule animali e i materiali usati come nutrimento cellulare sono o possono essere comunque naturali), ma si basa su principi alimentari coltivati in laboratorio, a partire da cellule animali, un metodo che si è fatto strada prima di tutto nel campo dei biomateriali e della medicina rigenerativa, con la ricostruzione di tessuti ed organi umani come il tessuto cartilagineo, osseo, cardiaco, nervoso a scopo curativo; fra l’altro l’uso di cellule del paziente stesso garantisce la mancanza di fenomeni di risposta immunitaria. Non c’è nessun processo di sintesi chimica, ma solo la coltivazione in laboratorio delle cellule dell’essere vivente scelto e del suo specifico tessuto. Non a caso in inglese si chiama “cultured meat” traducibile in italiano come carne coltivata.

Tornando al caso del cibo il problema è stato affrontato anche in Europa. Dall’Europa arriva infatti uno stop al cibo coltivato. La commissione Agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento europeo ha infatti cassato il paragrafo 19 della risoluzione sulle colture proteiche, nella parte in cui faceva riferimento a prodotti innovativi a base cellulare e comunque è stato sancito che non si possa chiamare carne quella prodotta “sinteticamente”. In effetti il testo originale includeva un paragrafo che definiva la carne sintetica un’opportunità da sfruttare, ma gli emendamenti presentati dai partiti hanno ribaltato questo impianto eliminando ogni riferimento al cibo di laboratorio e sottolineando invece l’importanza delle nuove biotecnologie sostenibili nella sfida globale per un’agricoltura in grado di produrre di più  utilizzando meno input, dunque ufficialmente l’UE sceglie la strada di aumentare la produzione alimentare senza modificarne la struttura ma introducendo tecnologie genetiche non OGM, quelle tecniche che lasciano evolvere il materiale genetico spontaneamente ma lo testano per scegliere poi le mutazioni spontanee più favorevoli.

In ogni caso l’Italia come si diceva all’inizio, si è mossa con una legge ora approvata che vieta la produzione e l’importazione di carne coltivata. Il processo inizia con il prelievo di alcune cellule dai muscoli di animali adulti, cellule che vengono poi poste in un bioreattore dove un liquido di alimentazione le fa crescere fino a dare vita ad una coltura cellulare e poi ad un tessuto vero e proprio. La sperimentazione è stata eseguita con cellule di bovini, maiali, tacchini, polli, anatre e pesci. Ma come scritto in precedenza IDENTICHE procedure vengono usate su cellule umane per la rigenerazione di tessuti di vario genere, in quella che viene definita medicina rigenerativa o ingegneria tissutale; queste procedure consentono di risparmiare con la carne coltivata non solo la vita degli animali e le loro sofferenze, ma riducono i consumi idrici (fino a 15000 l per 1 kg per la carne tradizionale) ed  in generale l’inquinamento ambientale.

Fino ad oggi gli unici Paesi che hanno approvato il consumo di carne coltivata sono gli USA e Singapore, ma in molti altri sono attivi programmi sperimentali per la sua produzione. Nel nostro Parlamento comunque fra contrari ed astenuti 87 deputati si sono dichiarati contrari al divieto di produzione e di mercato per alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivati da animali vertebrati. La legge sancisce anche il divieto di denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali. La legge dovrà essere valutata a livello europeo per i suoi aspetti di conformità rispetto al diritto comunitario, specie per quanto riguarda il principio di libera circolazione delle merci.

Un aspetto della legge che di certo ne qualificherebbe i contenuti riguarda la ricerca scientifica nel settore dei cibi sintetici. La sicurezza e la qualità alimentare non devono essere messe in discussione e l’Italia con la legge approvata intende rappresentare un modello per tutti i Paesi Europei ma la fame nel mondo e le nuove crescenti povertà obbligano a non trascurare possibili nuove risorse alimentari che le contrastano e che possono aprire a nuove innovative risorse alimentari; la ricerca scientifica deve essere posta nella condizione di percorrere queste nuove strade. A margine dell’approvazione della legge c’è stato uno scontro fra l’onorevole Della Vedova di +Europa e Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, il primo contrario, il secondo favorevole alla nuova legge. Lo scontro anche fisico soffre purtroppo di un comune difetto del dibattito anche istituzionale: di una medaglia si vede solo una faccia, quella di proprio comodo.

Vale anche la pena di chiarire un concetto semplice; il problema della quantità di cibo a cui le varie tecnologie cercano idealmente di rispondere esiste se e solo se ci si continua a basare su una alimentazione basata in modo significativo su proteine animali; la maggior parte della produzione agricola infatti non è diretta alla produzione di cibi umani, ma alla produzione di cibi per gli animali da allevamento, che come abbiamo detto varie volte costituiscono il grosso della biomassa animale del pianeta; un cambiamento nella struttura alimentare che privilegiasse i vegetali, senza impoverire la qualità proteica usata, eliminerebbe alla radice la questione delle carenze alimentari che sono poi esacerbate prima di tutto da processi di mercato o politici, come si è visto con il prezzo del grano.

Si veda anche:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/16/la-legge-che-vieta-la-carne-coltivata-e-una-delle-piu-assurde-e-inutili-di-sempre/7355489/

https://gfi.org/science/the-science-of-cultivated-meat/

https://www.nature.com/articles/d41586-023-02095-6

Perché i tessuti si restringono e altre storie.

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA' - 25 November, 2023 - 08:31

Claudio Della Volpe


Provate a riflettere su una cosa: veniamo al mondo nudi, ma comunemente veniamo seppelliti vestiti; in qualche modo il vestito si aggiunge al nostro corpo appena dopo la nascita e poi non ci lascia più.

Questo dovrebbe farci avere più attenzione ai tessuti di cui i vestiti sono fatti, e i tessuti debbono molto alla fisica e alla chimica (e alla geometria-topologia).

Questo post nasce dalla domanda apparentemente semplice: ma perché i tessuti si restringono quando vengono bagnati soprattutto la prima volta?

In realtà la risposta a questa domanda è molto complicata e non credo di poterla soddisfare in un solo post. Ma è una buona domanda, perché apre la stura a molte altre.

Anche perché il mondo dei tessuti coniuga aspetti geometrici, fisici e chimici in modo assolutamente affascinante e credo sia colpevolmente assente dalla cultura generale e dal mondo della scuola, sebbene, sotto forma di moda sia comunque presente nella nostra vita.

Ci sono testimonianze archeologiche di tessuti più vecchi di trentamila anni (in Georgia, le fibre di Dzudzuana sono tracce di tessuti di lino risalenti a 36mila anni fa), dunque certamente la tessitura è stata una tecnologia molto antica e che una volta entrata in circolo non ci ha più lasciati.

Qui devo fare una nota, ma significativa, di cui ringrazio mia figlia Daniela; esistono e hanno avuto molto spazio nella regione dell’indopacifico, fino a certe regioni dell’Africa dei materiali per vestiario prodotti a partire dalla corteccia interna di alcuni alberi, nome inglese bark cloth, che sono stati recentemente rimessi in gioco in Uganda dal desiderio di non perderne la tradizione. Questa corteccia fortemente battuta si presta a produrre “tessuti” di una certa dimensione e consistenza, ma non è affatto “tessuta”, conservando la propria struttura originale. Per converso i tessuti da ginestra di alcune regioni del nostro sud sono invece tessuti, ossia ottenuti da fibre estratte a differenza del bark-cloth.

Bark cloth indonesiano.

I tessuti sono fatti a partire da fibre vegetali o animali ed oggi anche sintetiche, dunque c’è tutta una parte della storia, che non vi racconterò, che porta dal vegetale o dall’animale (o dal petrolio) alla fibra; una volta arrivati alla fibra inizia il cammino del tessuto: come si tessono le fibre?

Le due grandi classi di tessitura sono espresse dalle due parole inglesi (la tessitura industriale moderna è nata in Inghilterra, ma era presente in fase artigianale anche dalle nostre parti; chi non ricorda i Ciompi, che battevano la lana per eliminarne i nodi?) weaving ossia tessitura (o lavoro a navetta) e knitting, o lavoro a maglia, rispettivamente, rappresentate nelle due figure qui sotto:

Weft è la trama e warp l’ordito

Intreccio a maglia

A sua volta il lavoro a maglia prevede due classi di intreccio che sono qui sotto schematizzate:

L’asola sinistra è a dritto quella a destra è a rovescio (seguire il filo giallo, a sin è sotto il rosso, mentre a destra è sopra il rosso))

Si racconta che una volta il dritto-rovescio sia stato ri-scoperto dal fisico teorico PAM Dirac tramite una osservazione “sperimentale”. Racconta Gamow nel libro 30 anni che sconvolsero la fisica (Zanichelli BMS 19, 1968)

A seconda del filato e del modello di lavorazione a maglia, i capi lavorati a maglia possono allungarsi fino al 500%. Per questo motivo, la lavorazione a maglia è stata inizialmente sviluppata per indumenti che devono essere elastici o elasticizzati in risposta ai movimenti di chi li indossa, come calzini e calzetteria.

Gli indumenti lavorati a maglia sono spesso più aderenti rispetto agli indumenti tessuti, poiché la loro elasticità consente loro di adattarsi più fedelmente al contorno del corpo; al contrario, la curvatura viene introdotta nella maggior parte degli indumenti tessuti a navetta solo con pince, svasature, tasselli e inserti cuciti, le cui cuciture hanno l’inconveniente di ridurre ulteriormente l’elasticità del tessuto.

Se tagliate un tessuto a navetta dovete far caso alla direzione del taglio rispetto a trama ed ordito; nel cucito, un pezzo può essere tagliato dal tessuto in qualsiasi orientamento, che però influenzerà il modo in cui il tessuto pende e si allunga e quindi la vestibilità di un indumento.

Si dice che un taglio è a dritto quando è orientato lungo l’ordito, traverso quando è orientato lungo la trama e a sbieco quando è a 45°; in questo ultimo modo il taglio dà un aspetto più fluido; e si tenga presente che ci sono due direzioni di sbieco l’una perpendicolare all’altra.

Esiste poi un altro modo storico di tessere che è l’antenato del moderno tessuto-nontessuto (woven-nonwoven in inglese) ossia il feltro. Il feltro è una stoffa realizzata in pelo animale. Non è un tessuto: viene prodotto con l’infeltrimento delle fibre. Il materiale che lo compone comunemente è la lana cardata di pecora, ma si può utilizzare qualsiasi altro pelo (o fibra sintetica, le mascherine anti-Covid sono tutte fatte così).

Se aggiungiamo a queste nozioni di base sui tessuti quel che ci siamo detti nel post su lavatura e stiratura saremo pronti a rispondere alla domanda iniziale: ma perché i tessuti si restringono quando vengono bagnati soprattutto la prima volta?

Cominciamo col dire che la tessitura specie a navetta prevede un meccanismo di accorciamento già in fase di tessitura perché la trama e l’ordito si devono adattare reciprocamente e dunque la lunghezza finale del tessuto dipende dal modo in cui sono esattamente intrecciati; inoltre in questa fase come nella fase precedente di filatura le fibre sono stressate anche significativamente e dunque il risultato finale dell’operazione di tessitura è una struttura soggetta a forti tensioni che possono essere rilasciate successivamente nel contatto con l’acqua che come sappiamo dal post sulla stiratura interagisce fortemente con le catene molecolari di proteine o di polisaccaridi che costituiscono il grosso dei tessuti di origine naturale (cotone e lino sono a base di polisaccaridi, mentre seta e lana sono proteine); l’interazione è certamente inferiore con i polimeri sintetici (massima col nylon, minore con i poliesteri che costituiscono il grosso dei sintetici); è infine da dire che in linea generale si possono avere sia fenomeni di restringimento che di allungamento durante le varie fasi di produzione e durante l’uso del tessuto, anche se il restringimento è probabilmente prevalente.

https://fabriziofamularo.it/restringimento-e-raccorciamento-nei-tessuti/

Possiamo definire restringimento (in inglese shrinkage) quel fenomeno di variazione dimensionale del tessuto dovuto al rilascio delle tensioni accumulate in fase di produzione e legato alla bagnatura, alla variazione di temperatura (per lavaggio o per asciugatura) e in genere al cambiamento ambientale del materiale, incluso per esempio fenomeni meccanici di compressione legati al lavaggio stesso (la lavatrice comprime e mescola meccanicamente i panni sia in lavaggio che in centrifuga). Ovviamente tali variazioni sono dirimenti, arrivano a qualche percento e sono dunque o possono essere maggiori delle differenze di taglia di un capo di vestiario con pesanti conseguenze pratiche. Proprio per questo motivo esistono dei procedimenti standard per valutare l’effetto di vari parametri sul tessuto che si restringe: AATCC 135, AATCC 158 e ISO 3759.

Alcuni meccanismi di restringimento sono specifici del tessuto e si possono verificare in ogni momento della sua vita; per esempio l’infeltrimento che è tipico della lana è dovuto alla struttura specifica delle sue fibre che sono dotate di scaglie lungo la superficie esterna:

Queste scaglie impediscono alle fibre di scorrere facilmente in una direzione e dunque bloccano eventuali variazioni dimensionali avvenute per esempio a causa di uno stress termico; la cosa è stata scoperta nel 1933 (J. Text. Inst., 24, 273T (1933) da Speakman.

In un lavoro successivo del 1944 su Nature (per chiarire l’importanza che una tale scoperta aveva sulla tecnologia dell’epoca) si dice (NATURE DECEMBER 16, 1944, Vol 154):

Il lavoro di Speakman e dei suoi collaboratori ha indicato che il restringimento della lana per infeltrimento è dovuto principalmente alla squamosità delle fibre, ma che in panni di costruzione e composizione simile l’entità dell’effetto viene determinata dalla facilità di estensione e dalla potenza di recupero delle fibre. Il restringimento dei tessuti trattati sotto condizioni comparabili è maggiore in condizioni acide e alcaline che in acqua, e i panni possono essere resi irrestringibili mediante trattamento con reagenti quali cloro, soda caustica o cloruro di zolfo. Questi fenomeni possono essere dovuti alla modificazione o delle proprietà elastiche o delle scaglie e gli esperimenti di questa nota sono stati concepiti per determinare quali delle due caratteristiche è più significativa.

Dunque in ogni momento una lana può comunque esprimere questo potenziale di “infeltrimento” e per questo motivo occorre trattare la lana con molta attenzione evitando di sottoporla a stress meccanici o termici eccessivi in fase di lavaggio.

Esiste comunque un procedimento chiamato Hercosett al cloro che consiste nella eliminazione tramite ossidazione delle scaglie e di una parziale ricopertura della superficie fibra con altri materiali; questa procedura riduce molto gli effetti di restringimento della lana; la lana vergine non è trattata in questo modo.

Un altro meccanismo di restringimento è legato al rilassamento di fibre stressate in fase di produzione, con un effetto mostrato nella seguente figura:

Il restringimento del rilassamento avviene con un tessuto realizzato con filati organici o fili che sono stati allungati o messi in tensione durante il processo di tessitura o colorazione o altri procedimenti. Questo rende le fibre temporaneamente più lunghe, e quando il tessuto viene successivamente lavato in acqua calda, i fili tendono a recuperare la loro stabilità dimensionale; questo effetto avviene una volta sola e di solito nel primo lavaggio, può esser tipico di alcuni di tipi di cotone (oltre che della lana) e limitarsi a 2-3%, che è comunque significativo. Come potete osservare dallo schema mostrato le fibre in realtà non si restringono, ma si alterano di forma.

Un altro meccanismo di restringimento è legato allo stress meccanico subito in fase di lavaggio, quando i panni sono sbattuti l’uno contro l’altro o compattati per la centrifugazione. La quantità di fibra che viene strappata ed espulsa come lanugine durante ogni lavaggio fa sì che il capo si riduca in volume, specialmente se sono presenti anche altri fattori di restringimento, come una alta temperatura. Questo fattore contribuisce pesantemente anche all’inquinamento legato alle fibre artificiali.

Ed infine un ultimo meccanismo è essenzialmente legato alla forte variazione di temperatura usata nel caso di asciugatura non naturale; in questo caso si ha una notevole perdita di acqua e l’umidità intrinseca di qualsiasi fibra può essere forzatamente ridotta. La lana ha un livello di umidità di circa il 17%, mentre il cotone di circa il 5%, entrambe queste percentuali possono essere ridotte da trattamenti termici inappropriati con vistosi effetti di restringimento.

Come si vede i processi di restringimento possono avere svariate origini, anche se sono più facili in tessuti naturali; esistono ovviamente metodi che all’origine cercano di ostacolarne l’evenienza, ma è anche da dire che un uso improprio del lavaggio e della asciugatura possono produrre questo effetto indesiderato perfino in tessuti di fibre artificiali; fare attenzione è obbligatorio per proteggere i nostri vestiti ed evitare anche inquinamento ambientale.

Termino con l’osservazione generale della distribuzione di mercato delle fibre tessili nel mondo, 110 miliardi di kilogrammi l’anno, ossia una quindicina a testa in media ogni anno; voi quanti ne avete nel vostro armadio?

Consultati:

https://en.wikipedia.org/wiki/Knitting

https://en.wikipedia.org/wiki/Dimensional_stability_(fabric)

https://www.displaycloths.com/fabric-shrinkage/

https://en.wikipedia.org/wiki/Compaction_(textiles)

Libro: La trama del mondo. I tessuti che hanno fatto la storia – Kassia St Clair UTET 2019

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