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La scienza della Cacio e Pepe
Ivan Di Terlizzi*
Il lavoro illustrato in questo post da uno degli autori ha vinto il premio IGNobel per la fisica 2025

Pochi piatti rappresentano l’essenza della cucina italiana quanto la Cacio e Pepe. Tre ingredienti, pasta, pecorino e pepe, per una ricetta semplice solo in apparenza. Chiunque abbia provato a prepararla sa che bastano pochi secondi di distrazione e la crema può trasformarsi in un disastro culinario. Da fisici italiani in Germania, io e i miei colleghi abbiamo spesso l’abitudine di cenare insieme durante i freddi weekend invernali, e le chiacchierate a tema scientifico di fronte a un piatto di pasta fumante non mancano mai. Nei nostri menu mancava però sempre un piatto: la Cacio e Pepe. Cucinarla per tante persone era infatti un problema. La gestione del calore diventa infatti progressivamente più difficile man mano che le quantità di pasta aumentano, e sprecare una gran quantità di prezioso pecorino portato dall’italia facendo magari una figuraccia davanti ad amici di varie nazionalità era un rischio che non volevamo correre. È proprio discutendo di queste difficoltà che abbiamo realizzato come la facilità con cui una salsa inizialmente liscia e omogenea si aggruma al variare delle condizioni esterne potesse indicare la presenza di una transizione di fase. Spinti dalla curiosità, abbiamo deciso di costruire un apparato sperimentale che ci permettesse di studiare lo stato della salsa in diverse condizioni fisiche.
Per condurre gli esperimenti abbiamo riprodotto la preparazione della salsa con strumenti da cucina comuni (bilancia, frullatore a immersione, pentolino e termometro digitale), ma con un controllo di temperatura più preciso. Il riscaldamento è stato realizzato con un sistema sous-vide modificato, in cui il pentolino contenente la salsa veniva immerso in acqua a temperatura controllata, sostenuto da una piattaforma di legno su misura che ne impediva il galleggiamento e assicurava un trasferimento di calore uniforme. Per l’analisi visiva della salsa, i campioni venivano disposti in una piastra di Petri su un supporto trasparente realizzato con semplice pellicola da cucina, illuminati dal basso da una lampada da tavolo e fotografati con uno smartphone montato su treppiede. Questo allestimento casalingo ma preciso ci ha permesso di osservare la formazione dei grumi e di costruire un diagramma di fase della Cacio e Pepe.
Da buoni fisici teorici, non potevamo accontentarci di uno studio puramente sperimentale. Durante le nostre discussioni ci siamo resi conto che un modo possibile di interpretare i risultati era quello offerto dalla fisica della separazione di fase, che qui a Dresda è particolarmente popolare. Gli argomenti di ricerca sono ovviamente più “seri”: dalla formazione degli organelli senza membrana nelle cellule alla comparsa delle placche beta-amiloidi nella malattia di Alzheimer. Nel nostro caso, invece, abbiamo a che fare con una miscela a base di pecorino romano che contiene proteine, grassi e sali minerali sospesi in una matrice solida. Quando viene grattugiato e mescolato con acqua, solitamente con l’acqua di cottura della pasta, queste componenti devono riorganizzarsi per formare un’emulsione stabile, cioè un sistema in cui minuscole goccioline di grasso sono disperse in acqua grazie all’azione stabilizzante delle proteine, in particolare le caseine. Tuttavia, se l’acqua è troppo calda, oltre i 65°C, le proteine denaturano e perdono la capacità di stabilizzare la salsa che inevitabilmente si rompe. Poichè il pecorino inizia a fondere intorno ai 55°C, la Cacio e Pepe riesce quindi solo entro una stretta finestra di temperatura compresa tra la fusione del formaggio e la denaturazione delle proteine. In questo equilibrio delicato l’amido gelatinizzato dell’acqua di cottura svolge un ruolo chiave, mantenendo la salsa omogenea e rendendola stabile anche a temperature più alte.

Il sugo cacio e pepe è composto da pecorino, pepe e acqua arricchita di amido. (a) Pasta con emulsione di pecorino e acqua arricchita di amido, condita con pepe nero macinato fresco. (b) Istantanee della miscela che costituisce la base del sugo, ovvero formaggio e acqua con diverse quantità di amido, a diverse temperature. In particolare, confrontiamo l’effetto dell’acqua da sola; dell’acqua di cottura della pasta che trattiene parte dell’amido (ottenuta cuocendo 100 g di pasta in 1 litro d’acqua); e dell’acqua di cottura della pasta “risottata”, ovvero l’acqua di cottura della pasta riscaldata in una padella per far evaporare l’acqua (fino a ridurne il peso totale di tre volte) e concentrare l’amido. All’aumentare della concentrazione di amido, gli aggregati di formaggio diminuiscono di dimensioni e si formano a temperature più elevate. La regione qui denominata “Fase Mozzarella” è caratterizzata da enormi grumi di formaggio simili alla mozzarella sospesi nell’acqua, risultanti da un’estrema aggregazione delle proteine durante il riscaldamento
Per studiare l’effetto dell’amido, nei nostri esperimenti abbiamo utilizzato amido in polvere, gelatinizzato in un pentolino per controllarne al meglio la quantità. In questo modo siamo riusciti a caratterizzare il diagramma di fase temperatura–amido della salsa Cacio e Pepe. Da questo si evince che esiste una quantità critica di amido, circa l’1% in massa rispetto al formaggio, al di sotto della quale, a temperature superiori ai 65 °C, l’aggregazione delle proteine avviene in modo drammatico, formando un unico grande grumo. Abbiamo deciso di chiamare questa condizione la “Mozzarella Phase”, e ci piace scherzare dicendo che questa è l’unica circostanza conosciuta in natura in cui la mozzarella rappresenti un risultato negativo. Al di sopra di questa soglia, i grumi sono molto più piccoli, persistendo fino temperature vicino ai 100 °C. Oltre il 4% di amido la rende la salsa un po’ troppo densa una volta raffreddata. Abbiamo quindi individuato una quantità ottimale tra il 2% e il 3%, che garantisce la minima dimensione dei grumi senza compromettere la consistenza della salsa.
Anche se non era nelle nostre intenzioni iniziali, la tentazione di tradurre queste osservazioni in una ricetta è stata troppo forte. Per due porzioni abbondanti, con circa trecento grammi di pasta e duecento grammi di pecorino, la quantità giusta di amido è di circa cinque grammi. Poiché l’acqua di cottura, anche se concentrata, raramente ne contiene a sufficienza, usiamo amido in polvere gelatinizzato, sciogliendo l’amido di patata o di mais in 50 grammi d’acqua e scaldandolo dolcemente fino a quando la miscela diventa traslucida e viscosa. Una volta ottenuto il gel, lo si può diluire con 100 grammi d’acqua a temperatura ambiente e frullare con il pecorino grattugiato fino a ottenere una crema omogenea, liscia e stabile. Questa stabilizzazione a basse temperature rende la salsa resistente all’aumento di calore.
Non può ovviamente mancare il pepe, possibilmente tostato in padella a partire dai grani e poi pestato al mortaio. Nel frattempo la pasta, cotta in poca acqua salata, va scolata al dente e lasciata riposare per un minuto, così da evitare che il calore eccessivo destabilizzi la salsa. Ricordiamo infatti che i nostri esperimenti sono stati condotti cercando di essere il più adiabatici possibile, per studiare il diagramma di fase in condizioni di equilibrio. Aumentare la temperatura della salsa troppo rapidamente può provocare effetti cinetici che ne destabilizzano la struttura nonostante la presenza dell’amido. La mantecatura deve avvenire a fuoco spento, con la padella non troppo calda, unendo la crema di formaggio e, se serve, poca acqua di cottura per regolare la consistenza. Sebbene non indispensabile per un cuoco esperto, questa ricetta rende senz’altro più semplice l’esecuzione di questo grande classico.
Possiamo però dire con certezza che, grazie ad essa, la Cacio e Pepe è tornata a essere una protagonista dei nostri menu serali tra gruppi numerosi di ricercatori.
In alternativa all’amido, si può usare una piccola quantità di citrato trisodico, un sale alimentare che stabilizza efficacemente le emulsioni a base di formaggio chelando il calcio contenuto nella caseina e impedendo la sua aggregazione. Il diagramma di fase con il citrato mostra nuovamente una regione in cui la “Mozzarella Phase” appare, ma a partire dal 2% in massa di citrato rispetto al formaggio (nel nostro caso circa 4 grammi), ogni traccia di grumi scompare. Questo mostra come l’effetto “chimico” del citrato sia diverso da quello più “fisico” del network di amido, che stabilizza la miscela in modo meccanico, formando una rete che intrappola le goccioline di grasso e proteine limitandone l’aggregazione. Il citrato permette quindi di ottenere una crema perfetta senza traccia di grumi, ma modifica leggermente il sapore del formaggio, probabilmente a cause delle proprietà basiche dello ione citrato, motivo per cui rimane a nostro parere una curiosità più che un ingrediente autentico.
Concludo dicendo che la ricerca scientifica non dovrebbe essere vista come contrapposta alla tradizione e alla spontaneità che rendono cucinare un’attività così ispirante, ma come un modo per capire meglio ciò che mangiamo. Le nonne romane che preparano la Cacio e Pepe perfetta non parlano di separazione di fase o di denaturazione delle proteine, ma hanno imparato empiricamente a controllare temperatura e acqua amidosa. La differenza è che oggi possiamo descrivere quantitativamente quei gesti, e magari usarli per insegnare chimica e fisica in modo più gustoso.
* Ivan Di Terlizzi è ricercatore al Max Planck Institute for the Physics of Complex Systems di Dresda. Si occupa di fisica statistica di non equilibrio e termodinamica stocastica; in biofisica lavora all’intersezione tra fisica dei sistemi complessi e genomica.
https://pubs.aip.org/aip/pof/article/37/4/044122/3345324/Phase-behavior-of-Cacio-e-Pepe-sauce
Gli autori del paper sono tutti fisici che hanno lavorato presso il Max Planck Institute for the Physics of Complex Systems di Dresda, dove si sono conosciuti. Attualmente Ivan Di Terlizzi, Matteo Ciarchi e Vincenzo Maria Schimmenti, tutti biofisici, lavorano ancora a Dresda. Giacomo Bartolucci, biofisico, è all’Università di Barcellona. Daniel Maria Busiello e Davide Revingas, entrambi fisici statistici, sono ricercatori all’Università di Padova. Fabrizio Olmeda, il romano del gruppo, è biofisico all’Istituto di tecnologia austriaco (ISTA) a Vienna. Infine, Alberto Corticelli, fisico della materia condensata, sta intraprendendo un percorso di ricerca all’intersezione tra neuroscienze e meditazione.
Industrial-scale potential valorization of ecotoxicity-free botanical residues: Uncaria laevigata as a high-efficiency corrosion inhibitor for X80 pipeline steel in acid pickling
DOI: 10.1039/D5GC03431K, PaperLi Huang, Xinyue Li, Wei Wang, Xianzhao Shao, Xiaohui Ji, Huijing Li, Xiang Nan, Yanchao Wu
X80 pipeline steel easily corrodes during acid pickling.
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Photocatalytic transformation of aliphatic heterocycles and electron-poor alkenes into functionalized heteroarenes
DOI: 10.1039/D5GC04418A, Paper


The merger of decatungstate photocatalysis and cobaloxime catalysis enabled the preparation of functionalized heteroarenes via a hydroalkylation/aromatization sequence starting from largely available aliphatic heterocycles and electron-poor olefins.
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The position-tuned nitrogen atom in Ni(II)-metalated covalent organic frameworks enables highly efficient and sustainable C–N coupling
DOI: 10.1039/D5GC03438H, PaperRui Zhang, Jinyang Hai, Huiying Chen, Mingxiang Zhu, Fang Zhang
Ni@Bpma-COF with highly efficient electron transfer (via regulating the electron transport distance and electron acceptance ability of the metal center) enables efficient and green Buchwald-Hartwig amination reactions.
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Correction: Hydrothermal liquefaction vs. fast/flash pyrolysis for biomass-to-biofuel conversion: new insights and comparative review of liquid biofuel yield, composition, and properties
DOI: 10.1039/D5GC90176F, Correction


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Green whole-cell biocatalysis: compartmentalized engineering of borneol dehydrogenase for stereoselective synthesis of (+)-borneol
DOI: 10.1039/D5GC03968A, PaperXiaomei Hu, Yi Huang, Yong Li, Shuangbo Huang, Pei Tang, Huijing Wang, Fener Chen
A compartmentalized engineering strategy produced a borneol dehydrogenase for the conversion of (+)-camphor to (+)-borneol in 45% yield and over 99.5% de, which benefits pharmaceutical production and the modernization of traditional Chinese medicine.
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In situ cyanide functionalization of ZIF-8 by γ-irradiation for photochemical removal of uranium
DOI: 10.1039/D5GC04222D, PaperYukun Zhang, Chong Chen, Changjiang Hu, Jianfeng Zhao, Jun Ma
A sustainable γ-ray strategy for in situ –CN generation in ZIF-8 avoids toxic cyanide. The resulting functionalized ZIF-8, coordinated with UO22+ ions through the –CN groups, demonstrates exceptional photocatalytic U(VI) reduction performance.
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Sustainable silica microcapsules
DOI: 10.1039/D5GC03298A, Paper


Sustainable micron-sized silica microcapsules for potential agrochemical applications are prepared under mild conditions at relatively high solids using a wholly aqueous formulation involving cheap, commercially available reagents.
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Plastic photoreforming: catalytic production of hydrogen and valuable chemicals
DOI: 10.1039/D5GC02621K, Tutorial ReviewHeng Li, Yeqiong Huang, Yueyang Zhang, Haiyan Li, Chengcheng Shen, Dong Xia, Yanmei Zheng
This review summarizes advances in plastic photoreforming for hydrogen production, aiming to promote the development of sustainable and efficient technologies for plastic waste degradation and green energy recovery.
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Unlocking the potential of plastic recycling processes with the integration of membrane technology: a focus on PET valorisation
DOI: 10.1039/D5GC03012A, Perspective


Plastics have transformed society but generate waste; integrating membrane technologies into recycling supports pretreatment, impurity separation, valuable-component purification, and waste treatment for higher-quality, lower-energy circularity.
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Evaluation of Ni/TiO2 catalysts in the semi-hydrogenation of alkynols under mild conditions in water
DOI: 10.1039/D5GC03626G, Paper


Selective hydrogenation of 2-methyl-3-butyn-2-ol to 2-methyl-3-butene-2-ol in water at room temperature with titania-supported Ni catalysts.
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Modular engineering a Shewanella oneidensis–CdS@rGO artificial photosynthetic biohybrid to accelerate photoelectron transfer and conversion for enhanced hydrogen production
DOI: 10.1039/D5GC01001B, PaperWenliang Xu, Qijing Liu, Qinran Ding, Yan Zhang, Junqi Zhang, Chao Li, Huan Yu, Baocai Zhang, Jie Yang, Cheng Zhong, Wenyu Lu, Guosheng Xin, Hao Song, Feng Li
A modular engineering strategy, including increasing transmembrane photoelectron uptake, improving intracellular photoelectron conversion, and accelerating interfacial photoelectron transfer.
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Visible light-driven modular synthesis of aza-β-lactams via a dual photochemical cascade
DOI: 10.1039/D5GC03481G, PaperImtiaz Ahmed, Nikita Gupta, Plaban Jyoti Sarma, Shilpa Neog, Vijay Kumar Das
Visible light unlocks a mild, transition metal-free pathway toward [2+2] cycloaddition of in situ generated ketenes with azoarenes, forging aza-β-lactams with up to 99% yield and broad scope—a green pathway to valuable scaffolds.
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Recent advances in vanadium-based NASICON-structured cathode materials for sodium-ion batteries
DOI: 10.1039/D5GC03154K, Tutorial ReviewQianchen Wang, LiYao Lu, Zhonghao Lv, Yuhang Xin, Zimo Zhang, Yingshuai Wang, Hongcai Gao
Vanadium-based NASICON cathodes stand out in sodium-ion batteries via three-electron transfer.
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Defect-engineered MOF-801 as a redox-active intercalation battery-type capacitive deionization cathode: mechanistic insights into selective calcium ion removal
DOI: 10.1039/D5GC02438B, PaperShu Zhou, Dong Wang, Huangzhao Wei, Hongchao Ma, Guowen Wang
The channels of SS-MOF-801 facilitate capturing the thick hydration shell of Ca2+·nH2O, reducing the hydration energy barrier. The defect oxygen groups and SDBS work together to selectively adsorb Ca2+ from multi-ion solutions via redox processes.
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Nature-derived adhesives based on chitosan and rosin acid with high strength, flame retardancy, and environmental friendliness
DOI: 10.1039/D5GC03674G, PaperQi Huang, Zhaoshuang Li, Zhenyang Bao, Xu Xu, He Liu, Min Zhang, Yan Qing, Xingong Li, Yiqiang Wu
Chitosan exhibits exceptional renewability and environmental compatibility, demonstrating significant potential for developing sustainable adhesives.
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Rational design of a Z-scheme ZIF-67/In2O3 heterojunction with a built-in electric field and defects for photocatalytic CO2 conversion
DOI: 10.1039/D5GC04070A, PaperChunxia Wang, Ling Ma, Yifeng Zeng, Yubo Zhang, Yanxin Sun, Xinchen Kang, Guoyong Huang
A ZIF-67/In2O3 heterojunction enhances CO2 adsorption and activation, sunlight use, and charge separation and mobility, achieving 6805.23 μmol h−1 g−1 CO production rate and a selectivity of 97.31% under visible light irradiation.
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Il Nobel per la Chimica 2025 agli architetti del nanomondo
Matteo Guidotti

Era da un po’ di tempo che non si avvertiva un’ondata di entusiasmo generalizzato come quella che si è vista in questi ultimi giorni dopo l’annuncio dell’assegnazione del Premio Nobel per la Chimica 2025 a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar M. Yaghi.
Sono molti infatti gli studiosi che, avendo in vari modi contribuito ad ampliare la conoscenza sui metal–organic frameworks, MOF, negli ultimi 30 anni almeno, sentono questo riconoscimento un po’ più vicino a loro. Nel mondo accademico, della ricerca e dello sviluppo industriale, non pochi chimici, scienziati della materia, ingegneri, fisici e tanti altri hanno progettato, sintetizzato, caratterizzato, modificato, ottimizzato, impiegato, prodotto su larga scala e sfruttato in vari modi i MOF.
Allo stesso tempo, molti colleghi, che negli ultimi anni avevano visto assegnare il massimo riconoscimento per la Chimica ad ambiti tematici più spostati verso le scienze della vita o la medicina, sono ora contenti di ritrovare in questo premio un paradigmatico distillato del loro bel mestiere: scegliere gli elementi più interessanti della tavola periodica, selezionare le molecole organiche più promettenti, assemblarle seguendo le regole della chimica reticolare e un po’ di fiuto del sintetista, per ottenere così eleganti strutture a livello nanometrico da utilizzare nell’immagazzinamento e separazione dei gas, nella catalisi, nella sensoristica o, ancora, nella progettazione di materiali energetici.
Inoltre, anche i giornalisti, che in questi giorni hanno divulgato la notizia, non hanno celato la soddisfazione di aver davvero capito, forse questa volta senza sforzi, quale sia stato l’oggetto del Premio. L’idea infatti del gioco di costruzioni nanoscopico, del “meccano” con stanghette molecolari e con snodi metallici, è di per sé molto mediatica ed è stata colta con immediatezza da tutti i comunicatori, anche quelli che hanno meno dimestichezza con le discipline scientifiche. Ne consegue che anche il grande pubblico dei “non addetti ai lavori” ha potuto cogliere almeno l’essenza del lavoro dei tre scienziati e padroneggiare, una volta tanto, una notizia che altrimenti avrebbe lasciato completamente indifferenti i più.
Va anche detto che la comunità scientifica internazionale dei chimici si attendeva, prima o poi, un Nobel per questo filone di ricerche che ha ampliato e potenziato quella corsa ai solidi sintetici porosi ordinati che aveva visto alla fine degli anni ’40 le prime zeoliti sintetiche, poi i setacci molecolari microporosi e i solidi mesoporosi ordinati tra gli anni ’80 e ’90 e, negli ultimi decenni, le strutture porose avanzate (APF, advanced porous frameworks), che sono, a loro volta, suddivise in amplissime famiglie, come i MOF, premiati lo scorso 8 ottobre, i covalent organic frameworks, COF, i porous organic frameworks POP, i porous organic cages POC o, ancora, gli hydrogen-bonded organic frameworks HOF.

Advanced Porous Frameworks e loro potenzialità applicative nelle separazioni e nelle purificazioni (da DOI:10.1002/adma.201902009)
E’ superfluo ricordare ai lettori di queste pagine (molti dei quali conoscono bene l’ambito di ricerca dei tre vincitori del Nobel) le proprietà dei MOF e di tutte queste strutture porose reticolari.[1] Sono infatti materiali estremamente versatili, le cui applicazioni sono ben di più di quelle ricordate dai mezzi stampa in questi giorni. Anche l’impennata, negli ultimi 25 anni, nel numero di pubblicazioni scientifiche e di brevetti in cui compaia la parola chiave MOF dimostra in modo chiaro e obiettivo un interesse reale che va ben oltre la “moda del momento“.

Numero di articoli scientifici per anno contenenti le parole chiave “metal organic framework” e “metal organic frameworks” nel periodo 2000-2024 (fonte Scopus)

Numero di brevetti registrati per anno contenenti la parola chiave “metal organic framework” nel periodo 2000-2025 (elaborazione da dati cas.org)
Giocando sulle permutazioni di forme, topologie, geometrie e composizione chimica, il numero di strutture MOF ottenibile è davvero infinito, con altrettanto modulabili porosità, aree superficiali e volumi utili interni. Solamente per le applicazioni catalitiche, ad esempio, poter collocare il metallo attivo con determinate caratteristiche chimico-fisiche in prossimità di gruppi funzionali specifici presenti nei segmenti organici del reticolo, ricorda molto ciò che la Natura fa nei sistemi enzimatici, in cui è tutto l’insieme del sistema sito attivo / intorno chimico / confinamento sterico che rende eccezionalmente attivi, selettivi ed efficienti questi catalizzatori naturali.
Ad ogni modo, sebbene alcune applicazioni dei MOF abbiano mostrato di essere arrivate ad una buona maturità tecnologica, alcuni aspetti legati ad un utilizzo su larga scala di questi solidi necessitano di ulteriori studi attenti e approfonditi. Per esempio, per alcune tipologie di strutture MOF, la sintesi solvotermica in autoclave, l’uso di solventi organici e/o di reagenti costosi (leganti funzionalizzati, metalli rari) rendono la produzione su scala industriale non banale. Per ovviare a ciò, si cerca di condurre sintesi in continuo (flow solvothermal synthesis), di utilizzare meno solventi, o più verdi, oppure basse temperature, così da superare il divario ancora spesso esistente tra sistemi dimostrativi di laboratorio e produzione commerciale economicamente sostenibile.
Anche l’impatto tossicologico e ambientale di questi materiali è un aspetto ancora controverso e poco studiato, soprattutto quando gli scopi applicativi prevedono l’uso di grandi quantità di MOF, come per la cattura e l’immagazzinamento di gas o per la decontaminazione di alti volumi di liquidi o di aeriformi. Alcuni MOF contengono metalli ecotossici (Cr, Cu in eccesso) o leganti organici potenzialmente problematici. La loro possibile dispersione o rilascio in ambiente, durante l’uso o a fine vita, necessita valutazioni accurate, proprio perché non è detto che quanto osservato per un sistema di una determinata forma o composizione sia poi estendibile a materiali analoghi.
Quindi, è chiaro come questo premio Nobel non sia affatto un punto di arrivo, ma uno (s)punto di partenza per nuovi avvincenti futuri lavori di chimici e scienziati. Vedremo come la comunità scientifica internazionale risponderà, nei prossimi anni, a questo invito.
[1] Chi volesse approfondire la conoscenza dei MOF può consultare alcune
rassegne alquanto esaurienti in vari ambiti applicativi, (tutte di libero accesso):
DOI:
10.1021/acsomega.2c05310;
10.1016/j.heliyon.2024.e25521;
10.1002/gch2.202300244;
10.1039/D3NA00627A
Decatungstate-photocatalyzed hydroacylation of azobenzenes with aldehydes to access N,N′-diarylhydrazides
DOI: 10.1039/D5GC03817K, PaperJingya Yang, Bao Huang, Haifang Xu, Qi Dong, Xiaojun Liu, Kejing Huang, Hongyan Zhou
A TBADT-photocatalyzed hydroacylation of azobenzenes with aldehydes has been developed, providing a green approach for synthesizing N,N′-diarylhydrazides.
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Synthesis of alkyl thioamides by three-component reactions of allyl alcohols, elemental sulfur and amines: elemental sulfur as a mild oxidant and a sulfur source
DOI: 10.1039/D5GC03854E, CommunicationJiyuan Wu, Yanyan Liao, Miaoyi Pan, Tangtang Song, Jian Zhang, Lai Li, Jianmei Lu, Xuefeng Jiang
An efficient and practical approach for the straightforward construction of thioamides via the combination of allyl alcohols, elemental sulfur and amines in a one-pot procedure was comprehensively achieved without any solvents or additives.
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