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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

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Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Aggiornato: 5 giorni 2 ore fa

Patologie da inquinamento

2 maggio, 2024 - 08:38

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Dalla medicina ci giungono dati europei sulle patologie più comuni e registriamo un aumento molto netto di patologie polmonari e cardiovascolari. La ragione viene attribuita alle condizioni ambientali. L’inquinamento di acqua, aria, suolo si trasferisce agli alimenti e da questi viene assorbito dall’organismo umano che si ammala – a volte fino alla morte. Fra gli inquinanti di cui si è tentato di correlare la concentrazione con la frequenza di patologie polmonari e cardiovascolari quello che maggiormente si è correlato per concentrazione con le patologie suddette è il PM2,5 nell’aria proveniente dagli impianti di riscaldamento, dai mezzi di trasporto, dagli allevamenti intensivi, dagli impianti industriali.

É stata rilevata linearità fra il numero di malati di cuore o ai polmoni e la concentrazione di questo inquinante in eccesso rispetto alla soglia accettata di 5 mg/mc. Correlazioni sono state anche osservate con le patologie infettive e le deficienze neurologiche. É stato rilevato che le donne sono più esposte degli uomini e che le patologie polmonari sono più diffuse di quelle cardiovascolari, soprattutto nelle aree industriali del NORD ITALIA.

https://www.airc.it/cancro/informazioni-tumori/corretta-informazione/inquinamento-atmosferico

Oltre alla conformazione del territorio, a partire dalla pianura padana, che non permette il ricircolo dell’aria, l’elevata intensità delle fonti di inquinamento comporta danni all’ambiente ed alla salute. L’aria fredda che tende al basso trattiene vicino al suolo le polveri ed i gas favorendone il ristagno invece che la dispersione. Questa elevata concentrazione è il risultato di scelte che hanno posto avanti gli interessi economici a quelli ambientali ed igienico-sanitari riproducendo una situazione già vissuta immediatamente dopo il boom degli anni 60. Dinnanzi ad una situazione così drammatica ci si sarebbe aspettato un accresciuto rigore capace di ridurre i 100mila decessi prematuri rilevati dalla statistica attuale, ed invece gli amministratori hanno previsto la possibilità di deroghe per le Regioni coinvolte, Lombardia, Veneto, Emilia, Piemonte con un rinvio di 10 anni per il rispetto dei limiti di concentrazione di particolato ed ossidi di azoto imposti dall’UE. Un altro esempio del mancato rigore de nostri politici deriva dalla osservazione che a Milano lo smog uccide più in periferia che in centro causa della vicinanza alle grandi arterie stradali. Per lo stesso rilevamento Londra ha reagito estendendo la ZTL a tutto il territorio metropolitano. Da noi niente di ciò anche se a RESPIRAMI, Convegno Internazionale, attenzione sarà riservata alla scelta londinese.

Come chimici possiamo dire di avere la coscienza a posto: sui dati ambientali della Pianura Padana e sui rischi che ne derivano ai cittadini abbiamo ripetutamente ed in più sedi elevato un grido di allarme, proprio a partire dai valori del PM2.5. Circa la ZTL abbiamo chiesto di rendere oggettivi i dati di limitazione e proposto alcune opportune razionalizzazioni.

Test ecotossicologici sui fanghi di depurazione.

28 aprile, 2024 - 18:02

Mauro Icardi

Il tema del trattamento, recupero e smaltimento dei fanghi generati dai processi di depurazione delle acque reflue urbane è sempre di attualità.

E questo avviene sia per il notevole quantitativo di fanghi di depurazione prodotti, sia perché con i moderni trattamenti dei reflui (sviluppati e implementati per rispettare i limiti agli scarichi più restrittivi imposti dalle più recenti normative) il loro quantitativo è destinato ad aumentare ulteriormente, con conseguenti problemi per quanto riguarda lo stoccaggio e lo smaltimento dei fanghi stessi, senza trascurare i costi che tali attività comportano. Nella gestione operativa di un impianto di depurazione, i costi sostenuti per il trattamento e lo smaltimento dei fanghi possono incidere in percentuale variabile dal 50 al 65% .

Secondo l’ultimo rapporto ISPRA (ISPRA 2022), i fanghi di depurazione prodotti in ambito nazionale a seguito del trattamento delle acque reflue municipali nel 2020 sono stati pari a 3,4 milioni di tonnellate, delle quali il 53,5% viene avviato ad operazioni di smaltimento e il 44,1% a recupero.

Grazie al loro prezioso contenuto in carbonio organico, azoto, fosforo e micronutrienti, possono rappresentare un substrato ottimale per l‘agricoltura. Opportunità che sarebbe da sfruttare anche alla luce dell’incremento dei prezzi dei fertilizzanti sintetici. La normativa lo consente, previa verifica del contenuto di alcuni inquinanti. Tuttavia, la legislazione legata al riutilizzo dei fanghi in agricoltura, sia a livello europeo (Direttiva 86/278/ CEE) che italiano (D.lgs. 99/92), è ormai obsoleta.

Il dibattito sulla opportunità di una revisione delle norme è molto acceso: la presenza di sostanze indesiderate pone infatti in primo piano la necessità di una valutazione approfondita dei potenziali effetti negativi sull’ecosistema e sulla salute umana. Da quando, nel 1986, è stata emanata la direttiva UE sull’uso agricolo dei fanghi, sono stati sviluppati strumenti e metodi di analisi che permettono la valutazione della tossicità di molte matrici di scarto.

Il saggio ecotossicologico è un esperimento biologico atto a verificare se un campione ambientale, o un composto potenzialmente tossico, causa una risposta biologica rilevante negli organismi utilizzati per il test. In questo modo l’obiettivo diviene non più la semplice protezione dello stato di salute dell’individuo secondo i criteri igienico-sanitari (tossicologia classica), ma piuttosto la conservazione dell’integrità degli ecosistemi.

Solitamente, gli organismi utilizzati per i test sono esposti a differenti concentrazioni o dosi di una sostanza di prova o di un campione (acqua di scarico, rifiuto, fango di depurazione, suolo, sedimento fluviale o marino) diluiti in un mezzo opportuno. Per l’esecuzione dei test ecotossicologici vengono utilizzati diversi organismi appartenenti ai diversi livelli della catena alimentare: produttori, consumatori, decompositori, i semi di crescione, sorgo e cetriolo, il piccolo crostaceo d’acqua dolce Daphnia magna e i batteri bioluminescenti della specie Vibrio fischeri.

Di seguito una breve descrizione di due test ecotossicologici.

 Test di tossicità acuta con Daphnia magna. (un post dal simile soggetto lo pubblicammo anni fa)

Per questo test si utilizza un piccolo crostaceo della specie Daphnia magna , molto sensibile soprattutto all’inquinamento da metalli pesanti (piombo, cadmio, zinco, rame ecc.).
I neonati di meno di 24h vengono immessi nel campione da analizzare e dopo 24h o 48h si osserva la percentuale di individui morti/immobilizzati. I risultati possono essere espressi o come percentuale di individui morti/immobilizzati o come valore di EC50, cioè come concentrazione della sostanza tossica che determina la morte/immobilizzazione del 50% degli individui impiegati nel test. Il metodo applicato è l’APAT CNR IRSA 8020 Man 29 2003. Per questo tipo di test esistono in commercio appositi kit con colonie di crostacei da far schiudere.

Test di fitotossicità.

I semi di piante come il sorgo, il crescione ed il cetriolo vengono utilizzati per effettuare dei test di fitotossicità della durata di 4 giorni, sia su campioni di acqua che su sedimenti, fanghi di depuratori e compost. Le sostanze tossiche agiscono inibendo la germinazione dei semi e inibendo l’allungamento della radice. Il metodo applicato è l’UNICHIM 1651 (2003).

Per poter effettivamente essere certi della qualità dei fanghi potenzialmente utilizzabili per uso agronomico, questi test uniti alle usuali caratterizzazioni di tipo chimico, hanno un’importanza fondamentale nel raccogliere dati sui quali costruire nuovi protocolli operativi e gestionali per gli impianti di depurazione. Allo stesso tempo possono essere la spinta a emanare una normativa più attenta alle esigenze odierne, in particolare sul monitoraggio degli inquinanti emergenti nelle principali matrici: acque sia potabili che reflue, e fanghi residuali del trattamento delle acque reflue. Ci sono molti progetti di studio su questo tema. Alcuni già terminati, altri ancora in corso. Credo che la strada intrapresa vada ulteriormente percorsa con decisione, coinvolgendo tutti i soggetti interessati in prima battuta; ovvero enti di ricerca, autorità di controllo ambientale, gestori del ciclo idrico. Oltre a questi soggetti è necessario coinvolgere l’opinione pubblica, e le varie associazioni interessate (quelle ambientali e quelle degli agricoltori). L’informazione deve essere chiara per evitare il mai risolto problema dell’accettazione sociale di certe pratiche o tecnologie.

Credo debba essere chiaro a tutti, in maniera consapevole quello che ci ricorda il padre della chimica moderna, Antoine Laurent De Lavoisier.

 “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”

Altri post su analogo tema:

Il fango e quegli idrocarburi del cavolo. Piccola lezione sui fanghi di depurazione.1. Ciclo dell’acqua: il problema dello smaltimento del fango residuo. Smaltimento dei fanghi di depurazione. Qualche considerazione conclusiva. Piccola lezione sui fanghi di depurazione. 2. I controlli. Parte prima Piccola lezione sui fanghi di depurazione.3: i controlli (parte seconda) Piccola lezione sui fanghi di depurazione.4. I controlli (parte terza).

25 aprile 2024

25 aprile, 2024 - 11:12

Claudio Della Volpe

Il 25 aprile è una data fondante della repubblica, specie oggi dopo 79 anni e con un governo che non accetta fino in fondo i presupposti di questa data; abbiamo scritto in passato molti post per ricordare cosa hanno fatto o facevano i chimici in quel 25 aprile del 1945, a partire dal più famoso, Primo Levi; ve ne linko alcuni qui sotto.

Oro. 25 aprile 2019. Oggi 25 aprile non ho testi. Il 25 aprile e la chimica. 2a parte. Il 25 aprile e la chimica.

Ma penso che oggi il 25 aprile lo dobbiamo vivere ogni giorno cercando di realizzare, di mettere in pratica i principi che furono stabiliti nella Costituzione repubblicana, una di cui qualcuno ha detto che è troppo “socialista”; beh forse lo è troppo poco ed è anche sotto attacco.

Come chimico il 25 aprile per me oggi è lottare per cambiare una società nella quale  la crisi ecologica, il degrado ambientale, la distruzione della biodiversità, l’invasione di nuove molecole indistruttibili si fondono, si intrecciano con l’incremento delle differenze sociali: crescono i poveri e il lavoro povero, insufficiente a  vivere, ma buono per morire (e in tutta Europa non solo in Italia, i morti sul lavoro sono troppi) mentre i profitti e il PIL aumentano (pochi giorni fa uno dei più famosi imprenditori italiani gioiva dei profitti record del 2023 mentre la sua fabbrica, la più famosa fabbrica italiani di automobili sta per chiudere, la sua fabbrica, proprio di quell’imprenditore lì!)

La chimica è scienza centrale, ma è anche stata usata come uno dei fondamenti di questa società dell’accumulazione; nell’accumulazione c’è stato progresso, ma anche distruzione; un esempio in cui la Chimica ha svolto un ruolo centrale? La rivoluzione verde dell’agricoltura , spinta dalla chimica MA non ha risolto la fame nel mondo (chi ha fame non ha i soldi per pagare), ha prodotto un miliardo di persone obese e sovra-nutrite, ha contribuito a sovra-produrre per  alimentare animali ammassati a miliardi e mangiare tanta, troppa carne alterando irreversibilmente il ciclo dell’azoto e del fosforo, riducendo la biodiversità e trasformando la biomassa che oggi è al nostro servizio; noi e i “nostri” animali  siamo il 98% di tuti i vertebrati, la biomassa vegetale è ridotta al 50% di quella che era 10mila anni fa, gli insetti sono ridotti del 75%.

Certo la Chimica in tutto ciò è stata principalmente splendido mezzo, opportuno strumento in mano alle classi al potere. Ma anche clava e martello, un po’ si è fatta “manipolare” (“il mezzo è il messaggio”) e la Chimica è troppo bella e potente per lasciarne il controllo a chi vuole accrescere il PIL; questo è il 25 aprile per noi; ogni giorno; smetterla di accettare che mentre in natura gli organofluorurati sono una ventina di molecole, nel nostro palmares di molecole sintetiche siano invece 21 milioni; molte di queste sono indistruttibili e si accumuleranno per millenni a partire dall’acqua che beviamo e che dovremo purificare ogni volta.

Ma anche questo non lo facciamo ancora, non abbiamo ancora preso coscienza del problema; ci stiamo lavorando, stiamo discutendo ancora per mettere un limite in Europa, mentre negli USA il numero di processi di SINGOLI danneggiati stimola il governo a imporre limiti molto netti, zero in alcuni casi.

Non è questo che dobbiamo fare, aspettare che ci arrivi la moda americana del momento; non abbiamo niente da imparare, dobbiamo solo attuare la costituzione repubblicana che ci è venuta da quel 25 aprile; noi abbiamo REACH e Costituzione, muoviamoci allora; se no a che è servito il 25 aprile? (in grassetto le ultime modifiche).

Art. 9 «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali».

Art. 41 L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».

Library Everywhere:una biblioteca per tutti

22 aprile, 2024 - 16:54


Seconda parte

Alfredo Di Nola*

Un progetto di volontariato sviluppato da Alfredo Di Nola, Nico Sanna** e Gianluca Sbardella***

https://www.library-everywhere.org

Nel 2017 scrissi su questo sito un post sul progetto di una biblioteca digitale pensata soprattutto per i Paesi poveri.

Avevo lungamente lavorato in Africa e in India nel settore dell’istruzione e avevo potuto constatare che la mancanza di libri di lettura era una costante. Le persone, che localmente si occupavano dell’istruzione, mi sollecitavano spesso a fornire loro un aiuto.

Come ho scritto nel post precedente, avevo alcuni dubbi etici, riguardo al colonialismo culturale, insito in questo tipo di operazione, ma poi, insieme ad altri due colleghi (Nico Sanna e Gianluca sbardella), abbiamo deciso di impegnarci.

La prima cosa che abbiamo pensato di fare è stata la costruzione di una biblioteca cartacea in una zona remota dell’India (link), presso una missione gestita da suore indiane. Per placare le nostre coscienze abbiamo lasciato che fossero loro a scegliere i libri. Era il 2010. Abbiamo progettato insieme alle suore la sistemazione di uno spazio dedicato e stabilito come e dove comprare i libri. In questo eravamo avvantaggiati dalla presenza in India di una fiorente editoria. Ci sono voluti due anni e uno sforzo economico non indifferente, per le nostre possibilità. Alla fine, nel 2012, abbiamo creato una biblioteca di 3-4 mila libri. Avevano scelto quasi tutti libri in lingua inglese e di scrittori occidentali!!!.

Eravamo soddisfatti, ma anche consapevoli che la ripetizione di una tale iniziativa era per noi impossibile. Le difficoltà sarebbero poi aumentate di molto in Paesi dove non ci fosse una industria editoriale.

Abbiamo allora pensato che una biblioteca digitale avrebbe risolto molti dei problemi, anche se ne avrebbe creati altri. Rimando al post precedente per i dettagli. Ricordo solo che era una biblioteca offline, che veniva distribuita tramite pendrive e installata in uno o più pc per la consultazione. Era composta da 1000 libri in lingua inglese e 500 in francese. Era il 2015. Nel 2016 l’abbiamo installata in due scuole in Kerala-India (link). Una ONG inglese ha provato a installarla in Sudan (credo senza successo).

Nel 2019 la abbiamo installata in 10 scuole tenute da Gesuiti nello Jharkhand-India.

In tutte queste comunità siamo stati accolti con entusiasmo. Sembrava che finalmente avessimo imbroccato una strada di successo. Ma non era così; rimanevano dei problemi non indifferenti, che dovevano essere risolti. Potrei dire che è stato un insuccesso di successo. Ma è dall’esperienza sul campo che si deve sempre partire per migliorare.

Elenco brevemente i problemi che erano ancora da risolvere:

La fruizione della Library richiedeva l’uso della sala computer. Molte comunità ne hanno una. Purtroppo però questa è dedicata a corsi di informatica e raramente disponibile come sala di lettura.

L’aggiornamento dalla Library richiede ogni volta l’invio di una pendrive e una nuova installazione.

Molti giovani dei paesi poveri studiano nella loro lingua e contemporaneamente imparano la seconda lingua ufficiale del paese (inglese, francese, ecc.), però hanno difficoltà a leggere in una lingua straniera.

I lettori digitali possono essere troppo costosi per molte comunità.

Nel 2020, grazie ai notevoli incrementi nella diffusione di internet, al miglioramento dei traduttori digitali e grazie anche al lockdown dovuto alla pandemia, abbiamo cambiato radicalmente la Library.

Ora ha queste caratteristiche:

È online, quindi non ha necessità di essere installata.

È composta da 1500 libri tradotti ciascuno in 11 lingue: Italiano, Afrikaans, Arabo, Hindi, Inglese, Francese, Portoghese, Shona, Spagnolo, Swahili e Zulu. Altre lingue si potranno aggiungere in seguito. Per la traduzione è stato usato Google Translate.

Si può consultare e leggere con pc, tablet e, cosa importante (vedi punto successivo), con smartphone.

Il problema del costo dei dispositivi di lettura può essere superato con l’uso di vecchi smartphone, non più utilizzati, ma funzionanti. Infatti, anche senza una scheda SIM, si possono collegare al nostro sito tramite WIFI. Molte persone hanno vecchi smartphone dispersi nei cassetti, che possono essere donati. Io ad esempio ne ho due. La connessione WIFI può avvenire anche tramite uno smartphone, dotato di SIM, che funge da hotspot.

La Library può essere ampliata con l’aggiunta di libri scritti e proposti direttamente dalle comunità locali.

Date queste caratteristiche l’attuale Library non richiede quindi costi di installazione e di gestione.

C’è tuttavia da notare che la traduzione, se pur accettabile, non è perfetta, ma col tempo i programmi di traduzione miglioreranno e così la Library.

In conclusione, per avere la nostra biblioteca in una comunità, anche remota, servono semplicemente un certo numero di dispositivi e un responsabile, che ne gestisca il prestito per la lettura.

In questi link riporto due brevi video di presentazione e il link al sito.

Presentazione Italiano
Tutorial Italiano

Sito Web

 *Alfredo Di Nola, alfredo@dinola.it

Alfredo Di Nola è nato a Roma ed è laureato in Fisica.

Ordinario di Chimica Fisica, presso il Dipartimento di Chimica della Sapienza-Roma (in pensione). La sua attività di ricerca è stata principalmente focalizzata nell’ambito della Chimica-Fisica teorica e computazionale, mediante simulazioni di dinamica molecolare classica e quantistica. Dal 1977 al 1989 ha tenuto corsi presso l’Università Nazionale Somala di Mogadiscio. Dal 2004, insieme a Nico Sanna e Gianluca Sbardella, si occupa di volontariato nell’ambito della diffusione della cultura.

**Nico Sanna Laureato in Chimica. Ha lavorato presso il CASPUR-Roma e presso il CINECA.
Attualmente prof. Associato di Chimica presso l’Università della Tuscia.

***Gianluca Sbardella Laureato in Chimica. Ha lavorato presso il CASPUR-Roma e presso il CINECA. È stato tecnico informatico presso l’Università Sapienza-Roma.
Attualmente è Tecnologo presso il centro di ricerca per le nanotecnologie applicate all’ingegneria del Dipartimento di Ingegneria della Sapienza-Roma.

Sostenibilità pratica.

19 aprile, 2024 - 10:32

Luigi Campanella, già Presidente SCI.

La sostenibilità ha cessato di essere un concetto teorico ed un po’astratto ed è divenuta parte dell’agenda dei governi, soprattutto dei Paesi più sviluppati. La sostenibilità ambientale storicamente più matura è divenuta la base di un concetto più ampio nel quale sostenibilità ambientale, economica e sociale s’intrecciano. Chi è preposto a scelte, nelle quali la componente etica gioca un ruolo non secondario, è obbligato a fare un bilancio costi benefici la cui più significativa difficoltà sta nel fatto che le sue tre componenti (economica, ambientale, sociale) rispondono a scale di valutazione non omogenee e non modulate né comparabili.

Soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere quelli della generazione futura” è la definizione ufficiale di sviluppo sostenibile. Ma perché è così importante perseguire questo fine? I 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile definiscono un nuovo modello di società, secondo criteri di maggior responsabilità in termini sociali, ambientali ed economici, finalizzati ad evitare il collasso dell’ecosistema terrestre.

La sostenibilità di recente è stata estesa al settore alimentare. L’alimentazione sostenibile è un approccio alimentare che mira ad essere rispettoso dell’ambiente e dei lavoratori nel settore alimentare L’obiettivo è creare un equilibrio tra la produzione alimentare e il massimo rispetto per l’ambiente, la salute umana e l’equità sociale. Si discute da una ventina di anni di indicatori di sostenibilità, ma per la verità con scarso successo in termini di risultati ottenuti.

Cosa sono ed a cosa servono gli indicatori di sostenibilità? Sono uno strumento atto a misurare il successo delle strategie adottate da un’azienda. Queste strategie vengono stabilite in un piano di sostenibilità aziendale e sono collegate a degli obiettivi specifici, quali, ad esempio, la riduzione dell’impronta di carbonio o dei rifiuti generati durante la produzione. Il loro impiego permette di valutare se vengano compiuti o meno progressi nella giusta direzione.

La ragione principale per cui vengono utilizzati è proprio quella di determinare se l’azienda stia raggiungendo i propri obiettivi. Qualora questo non stia avvenendo, possono essere introdotte delle misure correttive. Pertanto, gli indicatori di sostenibilità misurano le prestazioni dell’azienda e il modo in cui essa mette in atto i suoi piani. Tuttavia, è importante selezionare i parametri giusti, che siano strettamente connessi agli obiettivi proposti. Diversamente, gran parte della loro efficacia va perduta.

La questione degli indicatori è cominciata nel 2010 con le proposte di linee guida del Global Reporting Initiative (GRI). Successivamente il Sustainability Accounting Standard Board e l’Internazionalization Reporting Council hanno elaborato altri standard la cui versione ultima è etichettata UE. La critica a questi standard deriva da una definizione di sostenibilità soltanto all’interno dello spazio delimitato delle informazioni finanziarie, eliminando così ogni attenzione agli impatti ambientali e sociali interni ed esterni. Inoltre tali linee guida si basano su un approccio incrementale in termini di consumo idrico, risparmio energetico, salari, salute, sicurezza che da solo non dice nulla sulla sostenibilità in assoluto.

Un’alternativa credibile è rappresentata dell’approccio attraverso i planetary boundaries che individuano dei limiti e delle soglie oltre i quali non c’è sostenibilità. Da ciò deriva che ogni impresa per valutare una sua contabilità di sostenibilitá dovrebbe misurare l’impatto sulle risorse vitali del pianeta, come perdita di biodiversità, consumo di risorse, sistema di regolazione del clima, capacità di un bacino idrico di fornire acqua, attraverso un approccio basato su soglie.

Dal 2014 al 2021 l’UE è entrata nel dibattito sugli standard di sostenibilità con una apposita direttiva, di cui però il documento allegato tassonomico si conclude con una definizione politicizzata piuttosto che scientifica delle soglie della sostenibilità.

La sostenibilità è sempre più al centro del business. Il 59% delle imprese italiane ha istituito al proprio interno un comitato ESG (Environmental, Social and Governance), mentre un ulteriore 45% ha stabilito un obiettivo di riduzione nelle emissioni di CO2: i risultati di una ricerca congiunta di Dynamo Accademy e SDA Bocconi Sustainability LAB evidenziano chiaramente quanto fare sostenibilità in modo tangibile sia ormai parte dell’agenda dei CEO. È emersa nel tempo l’esigenza di categorizzare adeguatamente gli indicatori di sostenibilità, i quali ricadono in prima battuta in tre grandi cluster – come indicato nell’acronimo ESG.

-Indicatori di sostenibilità ambientale. Valutano il successo delle iniziative che mirano ad eliminare l’impatto delle attività di business sull’ecosistema: tra essi si annoverano la misura della quantità di acqua consumata, l’impronta di carbonio, le emissioni di anidride carbonica registrate per produrre un certo bene.

-Indicatori di sostenibilità sociale. Misurano le modalità con cui l’impresa si interfaccia con la società e/o la comunità in cui opera, analizzandone l’impatto su diversi gruppi di individui come dipendenti, fornitori e stakeholder; questo set di indicatori si concentra su temi come la parità di genere, la diversità e l’inclusione in azienda, così come la qualità e la salubrità dell’ambiente di lavoro. 

-Indicatori di sostenibilità di governance. Analizzano etica, correttezza e trasparenza del governo societario a più livelli, prestando attenzione anche alla compliance normativa.  

Negli ultimi anni, si è assistito ad ulteriori tentativi di sistematizzazione degli indicatori di sostenibilità. Ad esempio un rapporto di SDA Bocconi ha raggruppato gli indicatori di carattere ambientale in tre macrocategorie:

-Indicatori di Performance Operativa (OPI), che si focalizzano sia sugli input di produzione (materiali, energia e acqua) che su impianti, attrezzature, logistica e output (prodotti e servizi, rifiuti, reflui ed emissioni).  

-Indicatori di Performance Gestionale (MPI), i quali forniscono informazioni sulla capacità del management di incidere sulle performance delle attività aziendali rispetto all’ambiente. 

-Indicatori di Performance Ambientale (ECI), che si concentrano sullo stato dell’ecosistema in cui agisce l’impresa e sono più rivolti all’esterno verso le comunità locali e gli stakeholder in generale. Il riferimento, ad esempio, è alle concentrazioni di agenti inquinanti nel suolo e nelle acque e ai danni potenziali causati da certi tipi di emissioni. 

In questa prospettiva è essenziale misurare i risultati raggiunti, così da correggere rapidamente eventuali errori di strategia ed elaborare al meglio i progetti futuri: ogni azienda che oggi desidera adottare pratiche volte alla sostenibilità dei processi produttivi e all’economia circolare, può valutare le sue performance affidandosi agli indicatori di sostenibilità, ovvero ai parametri oggettivi che sono in grado di restituire, internamente ed esternamente, una fotografia dell’approccio sostenibile dell’azienda e guidare così l’analisi e i processi decisionali. 

Costruzione e decostruzione di una disciplina scientifica

16 aprile, 2024 - 09:48

Alessandro Maria Morelli

Il confronto in atto tra biochimici mi stimola a formulare alcune osservazioni sulle più evidenti criticità che penalizzano la ricerca scientifica. Dovrebbe essere libera, come recitano più articoli della Costituzione italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, art. 9; “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, art 33.

Invece la ricerca scientifica è sottoposta e limitata fortemente da un organismo creato ad hoc, l’ANVUR, che di fatto immobilizza la ricerca. Come mai solo l’attività della ricerca è sottoposta a così rigidi controlli? L’attività economica, per esempio non lo è. Anche l’arte non è soggetta a valutazioni governative della qualità. Solo la ricerca deve sottostare ad un organismo di controllo costituito in prevalenza da burocrati della ricerca, ovvero soggetti che non tengono conto delle seguenti proprietà che valorizzano la ricerca:

  1.  Ricerca vuol dire fare delle scoperte. Trovo che spesso questa intrinseca finalità della ricerca scientifica viene dimenticata. Nella pratica un ricercatore si deve muovere tra i paletti fissati dallo “stato dell’arte” e se trova qualcosa di nuovo deve opportunamente nasconderlo perché non previsto dai progetti di finanziamento. Oggi al ricercatore viene chiesto di attenersi ai protocolli. Ridicolo poi che gli venga anche chiesto quali sono i risultati previsti, una domanda insulsa. Perché la ricerca sarà tanto più valida quanto più risultati “non attesi” avrà.
  2. Si dà troppo credito alle citazioni. Se ci pensiamo bene il citare il lavoro di altri significa stare fermi. Idealmente un lavoro che non porta referenze vuol significare che ha fatto delle scoperte. Ovvero esiste un rapporto di reciprocità inversa tra numero delle referenze e valore di una pubblicazione scientifica. Il paper storico di Watson & Crick su Nature del 25 aprile 1953 riportava solo 6 citazioni e la prima era la confutazione delle tripla elica del DNA proposta e pubblicata dal famosissimo Linus Pauling, il padre del legame covalente, autorità assoluta per la chimica, già in odore di Nobel (che infatti gli fu attribuito l’anno successivo, nel1954). Eppure i 2 sconosciuti e giovanissimi Watson & Crick si permisero di umiliare Pauling dicendo in pratica che aveva visto lucciole per lanterne, perché le macchie nella lastra fotografica proveniente dalla diffrazione a raggi X valutata da Pauling quale indicatore della struttura a tripla elica del DNA, in realtà era dovuta ai sali. 
  3. Noi vediamo solo quello che in filigrana esiste già nella nostra mente. Questo deriva dalla filosofia di Immanuel Kant, mi sembra. Quindi quanto più siamo preparati su un dato argomento, e tanto meno possiamo accogliere una novità perché non fa parte delle nostre categorie mentali. Cioè noi vediamo solo quello che in filigrana è già presente nel nostro cervello per cui siamo naturalmente portati a rifiutare una scoperta perché la consideriamo un inciampo. E la configurazione di queste categorie mentali è in gran parte dovuta ai nostri studi. Più studiamo e più siamo portati a scartare quello che non rientra nei nostri schemi, schemi che si sono consolidati con lo studio e con l’insegnamento.
  4. Una ricerca perde di forza con la “specializzazione”. Molti ambiti della ricerca sono innescati da una osservazione originale al quale seguono tanti interventi che tendono ad enfatizzare la scoperta iniziale. Con il passare del tempo si perde l’ansia di effettuare altre scoperte perché i partecipanti a queste ricerche si specializzano in quell’argomento e quindi nasce la “disciplina” e gli scienziati sono sempre meno recettivi nei confronti delle novità e accade che la tematica non va avanti perché non tiene conto delle anomalie che inevitabilmente emergono.  In altre parole non può nascere un senso critico se l’analisi viene portata avanti con gli stessi criteri che hanno fatta nascere un circoscritto ambito di conoscenze, alias disciplina. Per cui sarà fruttuosa una opera di decostruzione della disciplina stessa, seguendo le indicazioni di George Derrida, il padre del decostruzionismo.

Concludo invitando tutti gli operatori in ambito scientifico a cercare meno sicurezze e garanzie protocollari a sostegno dell’attività della ricerca. La ricerca vuol dire rischio, ed è necessario avere il coraggio di percorrere strade poco battute, come ci ha ricordato Rita Levi Montalcini. Rischio che può essere anche fatale, come testimoniato da Francis Bacon, Madame Curie, Rosalinda Franklin ed altri. Chi vuole fare lo scienziato deve essere disposto a considerare l’ansia per la scoperta come una ferita che non si cicatrizza mai.

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I nemici dell’università: burocrazia e affari

Due storie su cui riflettere.

12 aprile, 2024 - 12:13

Mauro Icardi

Le due storie che voglio raccontare potrebbero essere viste come storie che gettano ombre sulla chimica. Invece ci si accorge subito che, come per ogni altro disastro ambientale, sono storie che hanno come denominatore comune il profitto ricercato ad ogni costo; economizzando in maniera scellerata sulle più elementari misure di sicurezza e igiene del lavoro. Di queste brutte storie sentivo parlare quand’ero ragazzo, perché erano vicine anche geograficamente. Cengio non era poi così distante da Mombaruzzo, il paese dei nonni, e Ciriè era ancora più vicina a Settimo Torinese dove ho vissuto. Sono le storie dell’ACNA e dell’IPCA.

L’ACNA nasce nel 1882 e inizialmente si chiama Dinamitificio Barbieri. Nel 1891 la fabbrica diventa SIPE – Società Italiana Prodotti Esplodenti e ha un forte sviluppo. L’area della fabbrica occupa nel 1908 mezzo milione di m² con una produzione di 14.000 Kg al giorno di acido nitrico, 13.000 di oleum (acido solforico fumante) e 2.500 di tritolo. L’impatto sull’ambiente è da subito devastante. Già nel 1909 si arriva a dover vietare l’utilizzo di qualsiasi pozzo che si trovi a valle dello stabilimento. I comuni toccati da questa direttiva sono quelli di Saliceto, Camerana e Monesiglio.  Ma il numero di persone impiegate continua a crescere e negli anni della prima guerra mondiale sono 6000 le persone che vi lavorano. Dopo il primo conflitto mondiale lo stabilimento passa di mano altre due volte, rilevato prima da Italgas per essere riconvertito alla produzione di coloranti tessili insieme agli impianti di Rho e Cesano Maderno.

 Nel 1929 nasce ACNA – Aziende Chimiche Nazionali Associate ; ma nel 1931 la fabbrica passa in mano alla Montecatini e alla IG Farben mantenendo l’acronimo con un significato diverso: Azienda Coloranti Nazionali e Affini. Con le guerre in Abissinia e in Eritrea viene ripresa anche la produzione di esplosivi e gas tossici. Questi ultimi verranno usati anche contro le popolazioni civili e le tende della Croce Rossa, in completo spregio delle convenzioni internazionali che ne vietavano l’uso. Pagina non edificante della nostra storia; da sempre rimossa e di cui si parla poco, e quando se ne parla traspare più fastidio che imbarazzo o vergogna. Negli anni del secondo dopoguerra anche lo scrittore Beppe Fenoglio, nel racconto Un giorno di fuoco, scritto nel 1954 e pubblicato nello stesso anno nella rivista Paragone, descrive e denuncia il degrado ambientale che sarebbe divenuto ancora più grave negli anni a venire: “Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna.”

 I contadini della Val Bormida citeranno in giudizio la fabbrica già nel 1938, ma tutto finirà nel 1962 in una sconfitta legale. Ovvero oltre al danno la beffa: gli agricoltori saranno condannati al pagamento delle spese processuali. Ma intanto a fine anni 60 le acque del Bormida si tingevano di UN colore diverso ogni giorno. Nello stesso periodo viene chiuso l’acquedotto di Strevi, e il sindaco di Aqui Terme sporge una denuncia contro ignoti per l’avvelenamento delle acque destinate al consumo umano.

Nel 1974 viene iniziata un’azione penale contro 4 dirigenti dell’ACNA, che però verranno assolti 4 anni dopo. Il 1976 è l’anno in cui viene emanata la legge Merli e qualcosa finalmente si muove, non solo in Val Bormida ma anche nel resto d’Italia. Ma le cronache relative alla gestione dell’ACNA parlano di operazioni che hanno dell’incredibile: rifiuti stoccati illegalmente in buche nel terreno. Nel 2000 la Commissione Parlamentare d’inchiesta sui rifiuti accerterà che una quantità di rifiuti dell’ACNA pari a 800 mila tonnellate è stata smaltita illegalmente nella discarica di Pianura, in provincia di Napoli. Bisognerà attendere il 1999 quando l’ACNA verrà chiusa dopo altre decine di proteste, blocchi stradali, l’interruzione di una tappa del Giro d’Italia nel 1988.

L’ACNA rientrerà nei siti di interesse nazionale per le bonifiche, e la bonifica stessa verrà dichiarata conclusa. L’investimento in totale ammonterà  di 51 milioni di euro.(1)

La seconda storia è quella dell’IPCA di Ciriè. Gli operai che vi lavoravano erano soprannominati “pisabrut”

Il nomignolo stava ad indicare un’urina brutta, perché chi lavorava in quella fabbrica si ritrovava inesorabilmente a urinare “rosso”. Tutto ciò era il preludio di una malattia che avrebbe portato alla inesorabile e dolorosa morte di 168 dipendenti.

La Società Anonima Industria Piemontese dei Coloranti all’Anilina (IPCA s.a.), fu fondata nel 1922 dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti; nei pressi di Cirié essi individuarono un’area adatta alla fabbricazione di coloranti all’anilina, un tipo di produzione fino a quel momento assente in Italia.

I successi commerciali dovuti alla concorrenzialità dei prodotti IPCA rispetto a quelli delle ditte estere, si ottennero riducendo in maniera considerevole i costi di produzione mediante un metodo di lavorazione obsoleto e altamente nocivo per gli addetti ai lavori.

Nel ’56 la Camera del Lavoro di Torino descriveva la fabbrica in questo modo: “L’ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizioni stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”.

È così che veniva descritta l’IPCA di Ciriè, a metà dello scorso secolo.  La produzione di pigmenti a base di ammine aromatiche la cui pericolosità era stata descritta fin dal 1895 dal chirurgo tedesco Ludwig Rehn.

Si racconta che un medico, che lavorava nella fabbrica e che doveva occuparsi della salute dei dipendenti, consigliava agli operai che urinavano rosso di bere meno vino e più latte. Nel 1972  due operai ex lavoratori dell’IPCA, Albino Stella e Benito Franza presentano una denuncia contro l’azienda.  Ecco alcune testimonianze scaturite durante il processo: “Gli operai usano tute di lana (che si procurano in proprio perché il padrone non fornisce niente) in quanto la lana è l’unico tessuto che assorbe gli acidi senza bruciarsi… anche i piedi li avvolgevamo in stracci di lana, e portavamo tutti zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci ustionavamo i piedi.”

 “Quelli che lavorano ai mulini dove vengono macinati i colori orinano della stessa tinta dei colori lavorati (blu, giallo, viola, ecc.) fin quando non si comincia ad orinare sangue“.

“Quando lavoravo lì, c’era un paio di guanti in tutto per sei persone addette. Mi sono bruciato parecchie volte e ho ancora le cicatrici sulle mani“.

“I colori e gli acidi che si sprigionano corrodono tutto, anche le putrelle del soffitto sono tutte corrose; figuriamoci i nostri polmoni, il nostro fegato, le nostre vie urinarie“.

“In tutta la fabbrica ci sono solo alcuni aspiratori collocati sopra i tini dove viene fatto cuocere il materiale, ma non aspirano tutto. Evitano soltanto che si muoia subito e ci permettono di morire con un po’ più di calma.”

 In seguito a questa vicenda e alle mutate condizioni di competitività commerciale, l’IPCA fallì e cessò definitivamente l’attività nell’agosto del 1982.

Queste sono due storie di cui leggevo il dipanarsi delle vicende sul quotidiano “La Stampa” che mio padre comprava tre volte alla settimana. Sentivo parlare e discutere parenti, amici, e conoscenti. Ho conosciuto anche ragazzi rimasti orfani, perché il loro papà ad un certo punto faceva la pipì “brutta”. E poi moriva.

Da queste storie si evince come non sia del tutto corretto additare la sola chimica come la responsabile di queste storie drammatiche e cariche di sofferenze.

Nei miei primi anni di lavoro ho visto, pesato, ricevuto e trattato i fusti di fanghi della Stoppani di Cogoleto c sui quali eseguivamo il trattamento di riduzione del Cr(VI)  contenuto nei fanghi a Cr(III).  Si lavorava indossando i DPI, eseguendo le visite periodiche e utilizzando cautela, prudenza e buon senso. In quegli anni ho percepito che poteva e doveva esserci un’altra chimica, la chimica che trova le soluzioni per la tutela ambientale. E mi domandavo come fosse stato possibile che un imprenditore, un dirigente, un funzionario potesse dormire la notte, sapendo i rischi a cui deliberatamente sottoponeva i lavoratori

E alla fine il ragionamento porta sempre alla stessa conclusione. È il profitto, la crescita incontrollata, l’incapacità di concepire un modo diverso di lavorare e di vivere, più che la chimica, la metallurgia o qualsiasi altra tecnologia o scienza a metterci nei guai. È la nostra superbia, la pretesa sciocca di poter disporre a piacimento del pianeta e delle risorse. E anche della vita di persone che avevano semplicemente la necessità di portare uno stipendio a casa. La chimica, sin dalle sue origini, si è sempre trovata al centro dell’attenzione, perché le sue ricadute pratiche si sono dimostrate di vitale importanza. E da sempre il difficile equilibrio tra i benefici e i rischi è al centro di un dibattito serrato. Il dibattito unitamente alla ricerca devono continuare. Ma potrebbero non bastare se il profitto rimane l’unica cosa che importa, che sovrasta ogni altra cosa. Anche la nostra umanità se il denaro finisce per diventare un fine ultimo, piuttosto che un mezzo di sostentamento. E queste purtroppo non sono le uniche storie, ma sono quelle che ricordo con un immutato senso di sgomento e tristezza.

  • Dato ricavato dal sito del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, sezione anagrafica dei siti contaminati.

Microrganismi e biocidi in conceria

8 aprile, 2024 - 16:15

Biagio Naviglio

Conservazione delle pelli grezze

Quando la pelle viene separata dal corpo dell’animale costituisce la spoglia o pelle grezza, materia prima dell’industria conciaria; con la rimozione della pelle dell’animale hanno inizio i processi naturali di putrefazione per cui è necessario sottoporre la pelle fresca ad opportuni trattamenti che impedendo i processi di decomposizione ne consentano la conservazione fino al momento della lavorazione in conceria. Infatti, la popolazione microbiologica degli animali in vita è tenuta sotto controllo dalla loro immunità naturale e dalle numerose barriere di resistenza fisica e metabolica che essi possiedono. Non appena, però, l’animale muore, cessano tutti i processi vitali e non vi è più alcuna resistenza allo sviluppo dei numerosi microrganismi presenti. Per la pelle grezza, materia prima dell’industria conciaria, ha inizio da questo momento l’importanza del controllo di muffe e batteri che durerà per tutto il periodo della conservazione e della lavorazione, onde evitare che l’azione deteriorante, causata da questi microrganismi, alteri le caratteristiche chimiche, fisiche e l’aspetto estetico della pelle finita/cuoio.

Per prevenire la biodegradazione, nell’arco di tempo che intercorre dalla scuoiatura all’inizio delle operazioni di trasformazione della pelle in cuoio, è necessario provvedere ad un’adeguata conservazione della pelle grezza, considerando anche che quasi sempre le pelli vengono lavorate in luoghi distanti dalle zone di produzione.

In questa fase, gli effetti dello sviluppo microbiologico da parte dei batteri proteolitici per una inadeguata conservazione, si possono manifestare sia attraverso la formazione di maleodoranze sia producendo dei danni meccanici/estetici alle pelli; i batteri proteolitici attaccano le proteine della pelle, in condizioni favorevoli di umidità, temperatura, pH ed altri fattori ambientali. Le reazioni chimiche avanzano fino alla degradazione degli amminoacidi in una varietà di prodotti degradativi, e possono essere così semplificate:

Il segno di un attacco batterico in atto è facilmente riconoscibile sia dall’odore pungente dell’ammoniaca prodotta sia dall’osservare la facilità con cui si può asportare il pelo, fenomeno noto come “Riscaldo”: putrefazione della pelle rilevata da una prematura perdita di pelo; quando il fenomeno è in fase avanzata sul cuoio finito è possibile osservare segni di abrasione del fiore con perdita della sua naturale lucentezza.

Inoltre, l’azione dei batteri sulle pelli può provocare la perdita di sostanza dermica con la conseguente formazione di danni meccanici come, ad esempio, la presenza di piccoli «crateri» sulla superficie (figura 1) oppure di buchi (figura 2)

Figura 1: Danno (“cratere”) da attacco batterico visibile sulla pelle

Figura 2: Buchi dovuti ad attacco batterico

La conservazione delle pelli grezze, in particolare quelle bovine, viene effettuata mediante salatura; tale trattamento consiste sostanzialmente nel saturare la pelle con sale comune (cloruro sodico) in modo da determinare, all’interno della pelle stessa, condizioni incompatibili con l’attività di batteri e microrganismi in genere. Il principio della salatura è basato sulla perdita dell’acqua per limitare la crescita microbica. Quando il sale viene distribuito sulla pelle fresca il contenuto iniziale di umidità pari a ca. 60-70% viene ridotto a 15-20%

Processo produttivo

La concia, generalmente, viene definita come un trattamento che consente di trasformare la pelle animale da materiale putrescibile in materiale imputrescibile conservandone la struttura naturale fibrosa e conferendo proprietà chimico-fisiche che la rendono adatta all’uso cui è destinata.

Tuttavia, il cuoio finito, conciato al cromo, al vegetale o altro, resta pur sempre un materiale sostanzialmente organico e, in particolari condizioni ambientali, può essere attaccato da microrganismi come le muffe e danneggiato in misura più o meno evidente.

La trasformazione della pelle grezza in cuoio, dalla scuoiatura al prodotto finito, prevede numerose fasi e soste nel corso delle quali le proteine della pelle possono essere anche rapidamente attaccate e distrutte da agenti biologici.

Ecco, quindi, la necessità di proteggere la pelle con processi di conservazione subito dopo la scuoiatura o nel rinverdimento quando questa sensibilità è massima, ma anche nel corso delle altre varie fasi della lavorazione quando, per motivi tecnologici o commerciali, le pelli devono sostare a lungo in uno stato semilavorato.

La presenza di un elevato contenuto di acqua, infatti, rende queste pelli ugualmente sensibili ad un attacco biologico nonostante che le condizioni del loro stato (pH basso, elevata concentrazione di sale, presenza di cromo legato e libero) siano tali da conferire loro una certa protezione.

Le pelli allo stato semiterminato (esempio, allo stato piclato* e/o wet-blue**) hanno una resistenza all’attacco biologico notevolmente maggiore della pelle fresca e tuttavia quando debbono essere conservate in tale stato per periodi piuttosto lunghi, richiedono l’impiego di preservanti per aumentare la resistenza all’attacco di batteri e muffe.

Molti microrganismi si trovano associati alla pelle ed al cuoio in virtù della loro capacità di utilizzare questi materiali come fonti di nutrimento; infatti, questi, sono prodotti organici costituiti da carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno e minerali indispensabili per lo sviluppo dei microrganismi. Gli studi fin ora effettuati hanno rivelato, infatti, una grandissima varietà di microrganismi associati all’industria conciaria, quali batteri, muffe, ecc.

La tipologia e la quantità di microflora presente nei processi di lavorazione varia con i fattori ambientali, quali pH, temperatura, attività dell’acqua, concentrazione di biocidi, etc.

Nelle prime fasi di lavorazione del processo conciario (rinverdimento, calcinaio, decalcinazione-macerazione), in condizioni di pH alcalino, i batteri giocano un ruolo predominante.

Le muffe, invece, che sopravvivono in condizioni di bassi valori di pH, sono prevalentemente associate  ai processi di piclaggio e di concia, data l’estrema acidità presente in queste fasi (pH 2-3)

I Batteri sono microrganismi unicellulari procarioti, delimitati da una parete cellulare sotto cui è presente la membrana cellulare, il loro DNA appare costituito da un unico e lunghissimo filamento che forma una struttura circolare.

A seconda della loro forma, distinguiamo i batteri in cocchi (di forma sferica), bacilli (di forma cilindrica), vibrioni (a forma di virgola), spirilli (a forma spirale) e spirochete (a forma sinusoidale con più curve) come evidenziato in figura 3.

Figura 3: Microrganismi – Batteri

Con il nome di muffe vengono indicate varie specie di funghi aventi un micelio di aspetto filamentoso; alcuni di questi funghi appartengono ai Ficomiceti, altri agli Ascomiceti.

I funghi si sviluppano su molte sostanze organiche animali e vegetali: sul legno, sulla carta, sul cuoio, sulle stoffe, sulle sostanze alimentari. Le muffe sono organismi pluricellulari.

Le muffe del genere Penicillium e Aspergillus (Funghi Ascomiceti) si trovano spesso su pelli piclate (pelli trattate con sale e acido) e wet-blue (pelli conciate al cromo allo stato bagnato). In Figura 4 è riportata, a titolo di esempio, una fotografia di un cuoio di origine bovina allo stato wet-blue caratterizzato da una notevole presenza di muffe.

Figura 4: Pelle wet-blue con presenza di muffe

Tipici biocidi/conservanti in conceria

  • Composti fenolici (paraclorometacresolo, ortofenilfenolo, ecc.)
  • Composti eterociclici/organosolforati (tiocianometilbenzotiazolo, metilenbistiocianato, octilisotiazolinone, ecc.)

Biocidi a base fenolica

I composti a base fenolica agiscono principalmente denaturando le proteine cellulari e danneggiando le membrane cellulari

Biocidi eterociclici: composti solforati

Il modo di azione dei composti TCMTB e MBT è quello di inattivare il trasferimento di elettroni nei citocromi, inibendo il sistema respiratorio; l’isotiazolone (OIT),invece, agisce inibendo la sintesi delle macromolecole essenziali : DNA, proteine, ecc.

L’efficacia del TCMTB è dovuta alla presenza del gruppo tiocianato che reagisce con i gruppi sulfidrici del sistema enzimatico oppure causa la disattivazione dei complessi metallo-enzima mediante attività chelante, inibendo cosi la reazione enzimatica ed interrompendo il rifornimento energetico alla cellula (nutrimento) pregiudicandone quindi la sua sopravvivenza.

I biocidi/preservanti sono, spesso, regolamentati anche nei capitolati redatti dalle case di moda (Burberry, Kering, Louis Vuitton, ecc.) insieme ad altre sostanze come la formaldeide, il cromo esavalente, gli azocoloranti che per scissione idrolitica liberano le ammine aromatiche vietate e così via. Un esempio di requisiti, relativi ai cinturini di orologi in cuoio, richiesti da noti Brand circa i biocidi/preservanti è riportato in tabella 1.

Tabella 1: Esempio di una lista di sostanze ristrette previste in alcuni capitolati di noti Brand- Product Restricted Substances List (PRSL)- Biocidi

In generale, per gli articoli in cuoio a diretto contatto con la cute, come ad esempio i cinturini da orologio, sono previsti dei limiti per taluni allergeni tipo formaldeide, cromo esavalente, ecc. Nell’ambito REACH, il regolamento UE 301/14 prevede un limite per il cromo esavalente di 3 ppm; tale restrizione riguarda il rischio di sensibilizzazione cutanea indotto dal contatto della cute con articoli in cuoio.

Bibliografia

  1. Naviglio B., Aveta R., Comite G., Batteri e muffe nell’industria conciaria: Identificazione, cause e prevenzione dei danni, Cuoio, Pelli e Materie Concianti (CPMC), 79 (2), 93 (2003)
  • Naviglio B., Microrganismi e trattamento antimicrobico del cuoio, Seminario Associazione Italiana Chimici Cuoio (AICC), Solofra, 28 ottobre 2022
  • Naviglio B., Gambicorti T., Caracciolo D., Calvanese G., Aveta R., Caratteristiche dei residui solidi da conce wet-white/metal free, 46° Convegno Nazionale AICC, 8 giugno 2018, Castelfranco di Sotto (PI)
  • Testi P., Pelli grezze: Caratteristiche e difetti, incontro formativo AICC, 2023
  • PFI – Germany, Preservatives in Leather Production,  Research Project

* Prima di essere conciata la pelle deve essere sottoposta ad una fase di lavorazione denominata piclaggio; questa operazione consiste nel trattare la pelle con un bagno contenente sale (cloruro sodico) ed acido (acido solforico e formico). La pelle piclata ( pelle che ha subito le prime fasi di lavorazione atte ad eliminare l’epidermide) può, talvolta, essere commercializzata anche in questo stato (stato piclato).

** wet-blue: trattasi di una pelle conciata al cromo in condizioni umide; anche in questo caso, la pelle conciata al cromo può essere commercializzata allo stato wet-blue.

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