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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

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Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Aggiornato: 1 giorno 12 ore fa

La fumata bianca e la fumata nera.

7 maggio, 2025 - 10:01

Diego Tesauro

La fumata nera e la fumata bianca (Figura 1) sono due segnali di fumo adoperati dai cardinali riuniti in conclave per comunicare all’esterno l’esito degli scrutini per l’elezione del nuovo papa, servendosi della combustione prodotta per mezzo di una stufa installata nella Cappella Sistina.

Figura 1 Fumata Bianca in alto e nera in basso

Nella millenaria storia del papato questa tradizione è relativamente recente anche rispetto all’istituzione del conclave nel XII secolo. Quando si rese necessaria una forma di comunicazione, fra coloro che erano isolati ed il popolo romano, in attesa della nomina del suo vescovo (all’epoca anche capo di stato), per tutto il XIX secolo, Il fumo che fuoriusciva dal camino della cappella Sistina, stava ad indicare solo la mancata elezione a seguito della combustione delle schede elettorali. Solo dal 1914 la fumata bianca sta indicare l’elezione del pontefice. Ma come vengono generate la fumata bianca o nera?

Il metodo utilizzato nel XX secolo era basato sulla combustione di paglia umida e pece, che talvolta dava luogo a fumate grigie poco chiare. Pertanto a partire dal conclave del 2005 in luogo della combustione delle schede si utilizzano ben precise reazioni che permettono inequivocabilmente di individuare se la fumata è bianca o nera.

Per ottenere la fumata bianca i reagenti sono il clorato di potassio KClO3, lattosio (C₁₂H₂₂O₁₁) e la colofonia. La colofonia è una resina vegetale gialla, solida, trasparente che deve il suo nome alla città greca della Ionia Colofone (Figura 2).

Figura 2 La colofònia*

E’ ottenuta dal residuo della distillazione delle trementine che generano le conifere per proteggersi dagli agenti patogeni. La colofonia è composta essenzialmente da acidi resinici i quali sono costituiti per circa il 90% da acido abietico (C20H30O2) (Figura 3) un diterpenoide, mentre il rimanente 10% è una miscela di acido diidroabietico (C20H32O2), cioè dove uno dei due doppi legami è idrogenato e acido deidroabietico (C20H28O2) dove è presente un terzo doppio legame.

Figura 3 Da sinistra a destra Le Strutture dell’acido abietico, dell’acido diidroabietico e dell’acido deidroabietico

La reazione è una reazione redox. Come si intuisce il clorato è l’agente ossidante che genera l’ossigeno secondo la reazione, ad una temperatura a circa 400 °C:

2 KClO3 → 2 KCl + 3 O2

L’ossigeno ossiderà il lattosio con reazione esotermica e l’acido abietico. La presenza del lattosio è richiesta perché produce nella reazione di ossidazione una quantità considerevole di acqua, mentre l’ossidazione dell’acido abietico genera particelle solide che sospese nell’aria, riflettono la luce e facilitano la condensazione delle particelle di acqua, generando il caratteristico colore bianco del fumo.

Per ottenere la fumata nera, si utilizza una miscela di perclorato di potassio, antracene e zolfo. Il perclorato di potassio KClO4, di cui si è ampiamente discusso in un precedente post, ha lo stesso compito del clorato cioè generare ossigeno. Ma rispetto al clorato è più stabile termicamente e si decompone a temperature più alte (oltre 500 °C), con una cinetica più lenta:

KClO4 → KCl + 2O2

Questo comportamento rende la combustione più controllata.

L’antracene, un idrocarburo policiclico aromatico, e lo zolfo fungono da combustibili. L’antracene, presente nel catrame di carbone, produce una grande quantità di particelle di carbonio incombusto nella forma allotropica di grafite (quella stessa che osserviamo uscire dalle marmitte soprattutto degli autocarri che hanno una combustione inefficiente del gasolio) che danno origine a un fumo denso e nero. Pertanto la reazione produce non solo diossido di carbonio, ma anche grafite secondo la reazione:

C14H10 + O2→ C + CO2 + H2O

Come osservate la reazione non è bilanciata in quanto le proporzioni fra grafite e diossido di carbonio dipendono dalla rapidità della reazione di produzione e dalla disponibilità dell’ossigeno. Infatti se la reazione fosse troppo rapida, rischierebbe di consumare tutto il combustibile ossidandolo completamente a diossido di carbonio cioè la reazione di ossidazione non si fermerebbe ad ossidare il carbonio a grafite, non producendo le particelle nere, ma tutto il carbonio assumerebbe lo stato di ossidazione +4 in luogo dello zero della grafite. Lo zolfo ossidandosi invece forma diossido di zolfo, che contribuisce ad aumentare la densità e l’opacità del fumo.

Nota

L’acido abietico deriva da un diterpene. I diterpeni sono una classe di terpeni composti da quattro unità isopreniche, spesso con formula molecolare C20H32. L’acido abietico deriva per ossidazione all’aria o per azione del citocromo P450 dal abietadiene (appunto un diterpene), che a sua volta è prodotto dal copalil pirofosfato (CPP), a sua volta derivato dal geranilgeranil pirofosfato (GGPP), precursore di molti diterpenoidi.

Figura 4 La biosintesi dell’acido abietico a partire dal geranilgeranil pirofosfato (GGPP) (1) attraverso copalil pirofosfato (CPP) (2) e l’abietadiene (3)

  • NdA. La colofònia è anche nota in commercio col nome di pece greca, resina per violino (violin rosin), resina della gomma (essudato delle incisioni su alberi vivi di Pinus palustris e Pinus caribaea) e tallolio. Come additivo alimentare ha il codice E915.

Chi guadagna a mezzogiorno?

3 maggio, 2025 - 10:01

Claudio Della Volpe

Il blackout verificatosi in Spagna e Portogallo alle 12:30 ora locale (Madrid) di lunedì 28 aprile ha causato che in pochi istanti gran parte della rete elettrica di Spagna e Portogallo sia collassata, causando l’interruzione dell’alimentazione su quasi tutto il territorio.

E’ un evento importante da capire ed analizzare ma anche da integrare nella visione della transizione della rete elettrica mondiale a cui stiamo andando incontro.

Per capire di più queste cose possiamo guardare anche ad un altro fenomeno che gran parte di noi NON conosce: specie in primavera ed estate ci sono momenti in cui l’energia elettrica non costa nulla sul mercato elettrico, ma noi utenti finali continuiamo a pagarla; come mai?

Questo dato potete cercarvelo da soli sulla pagina del GSE, il gestore della rete elettrica nazionale: questo qui sotto è il prezzo della energia elettrica del 1 maggio 2025 in Italia, il PUN, ossia il prezzo Unico nazionale che i gestori dei nostri servizi pagano ai produttori sul cosiddetto borsino elettrico e che diventa poi parte del prezzo della corrente che noi paghiamo:

https://www.mercatoelettrico.org/it-it/Home/Esiti/Elettricita/MGP/Esiti/PUN

Come vedete per il 1 maggio 2025 per circa 6 ore il prezzo della corrente elettrica è previsto a ZERO:

Non è strano né isolato; nell’ultimo mese la situazione è stata questa:

Nei giorni di bel tempo (a centro giornata) o di vento forte il prezzo crolla, perché in quel momento la offerta sul mercato SUPERA la domanda; per qualche ora che diventano decine di ore durante l’anno intero (si veda l’immagine successiva); ma attenzione non siamo NOI utenti finali che paghiamo zero l’energia; noi continueremo a pagarla secondo il nostro contratto; la pagheranno zero le società che comprano dai produttori e ci rivendono l’energia elettrica finale; in quel momento il loro profitto sarà massimo, ma il nostro vantaggio per quel ben di dio che arriva dal Sole sarà nullo.

Quando poi il sole o il vento vanno giù occorre usare i fossili e allora il prezzo scarta verso i 100 e più euro a  megawattora o 0.12-0.16 euro a kilowattora.

Ovviamente il nostro prezzo finale non potrebbe essere zero perché comunque dobbiamo pagare il servizio di trasporto della energia e i servizi generali di funzionamento e gestione del venditore nei nostri riguardi (chessò la pagina web tramite la quale interagiamo col suo sito). Ma rimane che il nostro prezzo finale non viene in genere avvantaggiato da questo fenomeno del costo zero.

I due fenomeni che abbiamo citato, il blackout iberico e la vistosa mancanza di risparmio sul prezzo legata alle rinnovabili hanno la stessa origine; il mercato elettrico o borsino elettrico ed in genere il sistema elettrico non è organizzato per il bene comune, per gestire collettivamente la risorsa elettricità, ma per massimizzare i profitti dei produttori e venditori di energia elettrica; il mercato ha ormai da molti decenni terminato il suo ruolo di allocatore  neutrale ed efficiente delle risorse per diventare un meccanismo di difesa di interessi corporativi.

Avevo già avuto modo di raccontare cosa combina il mercato elettrico italiano con la storia del CIP6* che raccontai anni fa (rifacendomi al lavoro sempre da ricordare di Leonardo Libero) in vari post, dedicati alla storia dell’energia elettrica in Italia (erano 5 pubblicati ormai più di 10 anni fa su questo blog).

Il mercato elettrico, ed in genere il mercato, sta ostacolando il vero progresso della generazione elettrica che necessita di importanti modifiche strutturali; la Spagna per esempio è il paese europeo meno interconnesso ed è stato rimproverato dall’UE per questo; nei giorni precedenti al blackout si erano già verificati due momenti di crisi locale in Spagna raccontati da Repsol (https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/29/5-giorni-prima-del-mega-blackout-repsol-aveva-lanciato-lallarme-su-problemi-tecnici-ce-stato-un-grave-guasto-elettrico-lo-rivela-el-mundo/7968845/).

Quali sono gli aspetti di ammodernamento che servono sicuramente ma mancano  in Spagna ed altrove in Europa e nel mondo?

  1. Integrazione estesa della rete elettrica che serva a scambiare maggiori quantità di elettricità riducendo gli effetti della relativa imprevedibilità delle rinnovabili; al limite questo vuol dire UNA sola rete elettrica mondiale come proposto già nel 1938 da Buckminster-Fuller
  2. In attesa di una tale rete unica sviluppare accumuli locali di grande entità basati sull’eccesso di produzione delle rinnovabili specie del FV nelle giornate estive con accumulo sotto forma di idrogeno, metano o ammoniaca da bruciare e recuperare in situ e stoccare per le future esigenze, dunque sviluppo di un sistema di idrolizzatori, reattori chimici da idrogeno ad ammoniaca o metano, serbatoi per accumuli, reti di trasporto gas e centrali di combustione che funzionino poche ore l’anno, non basate dunque sul principio di redditività economica
  3. Consentire all’utente finale di pagare i consumi sulla base della produzione in tempo reale non invece a prezzi costanti che favoriscono il produttore o il distributore

Quello che queste mancanze denunciano è che le forze produttive, in particolare la trasformazione di energia, confliggono con la nostra organizzazione economica basata sul criterio del massimo profitto privato, e non invece sul benessere collettivo.

Occorre cambiare questa situazione al più presto se no la nostra specie diventerà una di quelle che scompaiono ben prima dei fatidici 5 milioni di anni medi: noi giovani scimmie intelligenti (in realtà mica tanto) ne abbiamo solo 300mila.

PS a post scritto leggo su Le Scienze che in Cina (un paese che viene spesso indicato come il nemico autocratico del libero occidente) mandano SMS agli utenti per invitarli a ridurre i consumi se ci sono problemi di sottoproduzione o al contrario per approfittare dell’eccesso produttivo consumando al momento, rendendo in questo modo più “intelligente” il consumo della risorsa.

* Il CIP6 è una delibera del Comitato interministeriale dei prezzi adottata il 29 aprile 1992 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 109 del 12 maggio 1992) a seguito della legge n. 9 del 1991, con cui sono stabiliti prezzi incentivati per l’energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e “assimilate”. Il CIP6 è il contributo che abbiamo pagato per decenni per sviluppare le rinnovabili, ma in realtà usato per bruciare rifiuti e oli pesanti tecnicamente “assimilati” alle rinnovabili, uno scandalo enorme, costato decine di miliardi di euro.

L’Iran e il perclorato di sodio.

29 aprile, 2025 - 14:49

Claudio Della Volpe

Bandar Abbas è una delle maggiori città iraniane e il suo porto è il principale porto dell’Iran, situato sullo stretto di Hormuz, nella parte più stretta e critica del Golfo Persico, est della penisola arabica (attenzione a non confonderlo, come capita spesso a me, col Mar Rosso, che è dal lato ovest della penisola Arabica).

Shahid Rajaee, una delle due metà del porto, è una grande struttura per le spedizioni di container, che copre 2.400 ettari. Gestisce 70 milioni di tonnellate di merci all’anno, tra cui petrolio e trasporti generali. Dispone di quasi 500.000 metri quadrati di magazzini e 35 posti di ormeggio.

Sabato 26 aprile vi si è verificata una enorme esplosione che ha provocato almeno 18 morti e 750 feriti con distruzione di vetri fino a chilometri dall’origine ed una altissima colonna di fumo.

L’autorevole sito della BBC riporta un filmato registrato casualmente dalla telecamera di un guidatore distante.

https://bbc.com/news/videos/clywpwr8y71o

Se ne trovano in rete anche altri a minore distanza.

Il video è privo di sonoro, ma mostra un dato importante per comprendere la dinamica degli eventi; inizia con una colonna di fumo già in atto, SEGUITA solo dopo qualche secondo dalla gigantesca esplosione.

Si tratta quindi verosimilmente di un incendio iniziale a cui è succeduta l’esplosione.

Questo serve a distinguerne l’origine; non si è trattato di un attacco missilistico, ma più probabilmente di un incendio, che può certo verificarsi casualmente in un grande porto come quello di Bandar Abbas (ma che potrebbe anche essere il risultato di un attacco con droni o comunque di un sabotaggio) che ha fatto in seguito esplodere sostanze ivi presenti.

Incendio fortuito o sabotaggio o attacco deliberato non sono ovviamente identici e potrebbero avere effetto sui colloqui attualmente in corso fra USA ed Iran sull’accordo per lo sviluppo del nucleare che sono ripresi da poco tempo.

Negli ultimi mesi le notizie giornalistiche riportano che nel porto iraniano sono state sbarcate migliaia di tonnellate di perclorato di sodio, provenienti dalla Cina. Le autorità iraniane hanno escluso qualunque implicazione con l’industria del petrolio.

Il perclorato di sodio NON è di per sé un buon esplosivo, anzi non può definirsi nemmeno DI PER SE un esplosivo, ma può esplodere in determinate condizioni che esamineremo fra un momento; esso viene usato per produrre una sostanza usata nei missili a combustibile solido: il perclorato di ammonio (di cui abbiamo parlato in passato) od anche per produrre miscele esplosive se per esempio viene mescolato a sostanze organiche o a zolfo.

Dunque questa esplosione rallenterà la produzione di razzi e missili, come lo Zolfaghar, che l’Iran esporta verso la Russia ed usa in altri teatri bellici.

Il perclorato di sodio è un composto di formula NaClO4, il sale sodico dell’acido perclorico, che si presenta come un solido cristallino incolore ed inodore. È un ossidante forte (il cloro ha numero di ossidazione +7) e può essere utilizzato, come tale o modificato, come comburente in miscele propulsive o esplosive. In sostanza gioca il ruolo che può giocare l’ossigeno. Notate la differenza che sussiste fra il perclorato di sodio e quello di ammonio, in cui la presenza dell’azoto nel suo stato più ridotto lo trasforma in un composto INTRINSECAMENTE esplosivo, capace di una reazione di auto-ossidoriduzione.

E’ estremamente solubile in acqua (oltre 2kg/l) e presenta proprietà igroscopiche; è stato usato come elettrolita per la costruzione di batterie agli ioni di sodio (invece che di litio come intercalante in elettrodo).

Un ossidante forte implica che esso non possa da solo dar luogo ad un esplosivo; in realtà abbiamo affrontato questo tema già in passato in vari post. Un esplosivo infatti deve avere una di queste proprietà: contenere un ossidante ed un riducente od essere formato da una miscela di sostanze ciascuna dotata di una delle due proprietà, anche eventualmente sfruttando la presenza dell’ossigeno atmosferico.

Il perclorato di sodio da solo è invece un forte ossidante, la presenza di ossigeno non lo aiuta a reagire; anzi se lo si riscalda oltre i 400°C si decompone in acido cloridrico ed ossigeno, ma non esplode.

Esplode se e solo se lo mescoliamo con un riducente che gli ceda i suoi elettroni, dunque una sostanza organica o un metallo, meglio se finemente suddiviso.

Comunque la definizione come esplosivo del perclorato di sodio puro è ancora discussa in letteratura (si vedano i documenti in bibliografia) in rapporto al suo comportamento se finemente suddiviso ed esposto ad una fiamma.

Può aiutarci a capire meglio la situazione un articolo scritto da chimici italiani: in cui si analizza l’esplosione di una miscela di sostanze ciascuna delle quali di per se non è esplosiva ma che messe insieme in modo inopportuno diventano una sorgente di esplosione. Per esempio stoccare il materiale senza superfici di separazione è uno dei fattori di rischio. Non tener conto del potenziale di reazione reciproca è un altro. Ovviamente non sappiamo nulla della effettiva situazione di Bandar Abbas, ma non crediamo sia stata poi così diversa da altri casi che abbiamo analizzato come l’esplosione nel porto di Beirut o nel porto cinese di Tianjin, che pure abbiamo cercato di analizzare in passato o perfino nella moderne fabbriche tedesche.

Probabilmente una cosa simile è successa anche a Bandar Abbas; una insufficiente gestione del rischio, spinta dal ritmo incalzante ed assurdo della produzione moderna (bellica o meno non fa differenza) ha certamente potuto provocare l’esplosione, non sappiamo se la cosa sia stata fortuita o sia stata aiutata opportunamente da qualche nemico dell’Iran.

Certo rispettare le norme di sicurezza rende più difficile anche ad un ipotetico nemico di intervenire.

Secondo un articolo pubblicato sul NYT di oggi, domenica 27, i morti sono diventati 25 e i feriti oltre 1100; si tratta dunque di una grande incidente chimico o di un atto bellico non trascurabile. Vedremo nei prossimi giorni.

Oggi 29 aprile: Reuters segnala 70 morti e 1200 feriti

NdA Di passaggio ricordo qua che una miscela esplosiva analoga si può ottenere facilmente ed aiuta a capire il problema che pongo della impossibilità per il perclorato DA SOLO di esplodere; da ragazzi si raccoglievano facilmente il clorato di potassio (che si usa come disinfettante della gola) e lo zolfo in eccesso nelle cantine (e che serve per fare lo “zolfarello” al vino bianco, bruciarci zolfo vicino per produrre anidride solforosa per impedirne l’acidificazione); la miscela di clorato di potassio e zolfo se sottoposta a compressione (tipicamente fra due pietre) produce una blanda esplosione; attenzione non riproducete questo processo da soli se non ne comprendete le caratteristiche, potreste farvi male. Una tradizione del genere da veri monelli si trova in varie regioni italiane.

Da leggere:

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/0010218067900624

https://www.sciencedirect.com/topics/earth-and-planetary-sciences/ammonium-perchlorate

https://pubchem.ncbi.nlm.nih.gov/compound/Sodium-Perchlorate

Agricoltura sostenibile.

25 aprile, 2025 - 14:59

Luigi Campanella, già Presidente SCI

È stato detto e scritto più volte. Se tutta la superficie coltivabile della Terra fosse divisa fra gli 8 miliardi di persone e passa che la abitano a ciascuno spetterebbe un fazzoletto che dovrebbe rappresentare la superficie dalla quale ottenere le risorse per vivere. Purtroppo, fatti i conti, si è visto che così non è.

Però anziché puntare solo ad aumentare la quantità di risorse ottenibili dal proprio fazzoletto gli uomini dei Paesi più forti hanno deciso di appropriarsi dei fazzoletti dei cittadini dei Paesi più deboli. Così la societá globale si è indirizzata verso una visione polarizzata in cui coesistono cittadini che dispongono di 8 fazzoletti e cittadini che possono usufruire solo di frazioni del proprio fazzoletto.

Per combattere la fame nel mondo ci sono tre strade tecniche l’aumento della produzione con fertilizzanti, l’aumento della capacità nutrizionale con modificazioni genetiche delle colture alimentari, la protezione della salute dei vegetali con equilibrata adozione di fitofarmaci; ed una etica, utilizzare contro la fame nel mondo le risorse alimentari che vengono colpevolmente indirizzate verso la produzione di proteine animali venendo incontro a richieste da parte di stili di vita le cui conseguenze  sul piano ambientale ed igienico sanitario sono ben note.

Tutte queste strade trovano però per ragioni diverse opposizione le prime da parte della componente ambientalista della società civile, le seconde da parte dei grandi produttori di carne. Ovviamente questo non significa che le strade tecniche siano state abbandonate, ma di certo la intensità con cui vengono perseguite non corrisponde ai criteri di emergenza che a volte la fame nel mondo richiederebbe.

Ora però una nuova denuncia si aggiunge a creare allarme: l’agricoltura 2.0 e 4.0 potrebbe con le innovazioni tecniche e scientifiche che la caratterizzano contribuire ad una nuova fase dello sviluppo agricolo con ovvie ricadute anche sul problema alimentare. Cementificazione e abbandono della terra costringono l’Italia ad acquisire all’estero il 40% di mais, soia e grano; ed ora si aggiunge il problema dei dazi americani.

I terreni agricoli persi nell’ultimo secolo ammontano al 33% con valori delle % importate dei prodotti consumati che per carne e grano raggiungono il 60%. Le ragioni di questo abbandono sono molteplici a partire dall’emergenza siccità dovuta ai cambiamenti climatici ed alla irrazionale gestione degli invasi per la raccolta dell’acqua piovana. Altre ragioni vanno ricercate nella diffusione di specie selvatiche, nelle difficoltà gestionali in relazione ai limiti burocratici europei, nella concorrenza da parte delle importazioni da Paesi come Turchia e Canada dove si coltiva con tecniche non consentite in Italia per l’uso indiscriminato del glifosato.

La mancanza di reciprocità pesa peraltro anche sulla possibilità di accordi bilaterali. A questo quadro negativo fanno riscontro alcune situazioni favorevoli: l’innovazione tecnologica con la robotizzazione agricola, le applicazioni all’agricoltura dell’intelligenza artificiale, il nuovo approccio dell’agricoltura rigenerativa. Questa sfrutta la presenza nel terreno dei microorganismi preziosi per la sua qualità. Così il suolo viene continuamente rigenerato acquisendo resilienza e fertilità, sostituendo l’aratura tradizionale, che a causa della grande profondità coinvolta, comporta una modificazione strutturale del terreno che finisce per nuocere alla resa del terreno rispetto alle colture su di esso impiantate.

Il cacciatore appende il camice al chiodo?

18 aprile, 2025 - 12:29

Mauro Icardi

«Il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, ed in generale viene compreso appieno solo quando si spezza: con l’esilio o l’emigrazione nel caso del paese d’origine, con il pensionamento nel caso del mestiere» (P. Levi, Ex-chimico, in Opere complete, vol. I, p. 810).

E’ da molto tempo che rifletto su quanto esprime  Primo Levi in questo brano.

Il mio pensionamento dovrebbe (il condizionale in questo caso è d’obbligo e ha anche una funzione scaramantica) concretizzarsi nell’ottobre del prossimo anno. Dei canonici 42 anni e 10 mesi di contribuzione utile per arrivarci, 40 sono stati interamente dedicati al lavoro da chimico tout court.

Dal 2022 mi sto invece occupando della gestione degli approvvigionamenti, sempre per il settore dei laboratori dell’azienda unica di gestione del ciclo idrico, che è stata costituta con la fusione di varie altre aziende che operavano sul territorio provinciale di Varese.

Le variazioni e ricollocazioni, sono situazioni che ogni modifica aziendale normalmente comporta, e che possono essere occasioni di crescita anche in età “matura”, e in ogni caso sono incombenze che nei laboratori si devono affrontare.

Ma nei primi tempi ho provato una sensazione molto forte di nostalgia, quasi di perdita. Ho lavorato sul campo, alternandomi tra parte di gestione, e parte di controllo analitico del ciclo idrico per un trentennio. Ho lavorato per il settore gestione rifiuti, e nel settore dei prodotti vernicianti.  Ho cercato di crescere professionalmente sempre, spinto dagli obblighi dell’iscrizione all’ordine professionale, ma soprattutto per soddisfare la mia curiosità personale.

Mi sono sempre riconosciuto nella definizione di chi praticava la “chimica modesta”, termine coniato da Giorgio Nebbia, in cui mi sono sempre riconosciuto.

Nel momento di passaggio al nuovo incarico mi ritornava in mente un altro brano di Primo Levi, riferito agli errori che scatenano l’impolmonimento della vernice antiruggine.

“ Me lo raffiguravo, il tapino , sullo sfondo di quegli anni difficili: non più giovane, poiché i giovani erano militari; forse braccato dai fascisti, o magari anche fascista ricercato dai partigiani; certamente anche frustrato perchè l’analista è mestiere di giovani.” (P. Levi, Cromo, in Opere complete, vol. I, p. 874).

Col passare del tempo ho maturato un altro tipo di atteggiamento, anche perchè gestire gli acquisti di un laboratorio prevede di avere delle conoscenze tecniche e di saper fare le valutazioni appropriate, rispetto alla qualità di cosa deve essere fornito. Questo aspetto mi mette ogni giorno a confronto con ragazzi più giovani, in uno scambio che accresce sia me che loro. Qualcuno mi chiede consigli, e io mi rendo disponibile Mi rimane la nostalgia per la parte del lavoro sul campo, ovvero negli impianti di trattamento, ma questo lo gestisco stimolando la mia curiosità innata.

Mi sono anche convinto che in realtà non si appenda mai realmente “il camice al chiodo”. Cambiano alcune cose, altre restano invariate. Ragiono come un chimico, continuo a guardare istintivamente ogni impianto di depurazione, o di digestione anaerobica che vedo. Nel caso di richieste che provengano dai colleghi della sezione amministrativa, spiego sempre con molta dovizia di particolari cosa sia ad esempio un gascromatografo, termine che letto per esempio su una fattura, possa far sobbalzare qualcuno sulla sedia quando ne legge il prezzo.

La vita è fatta di cambiamenti continui, che occorre accogliere ed accettare. Ma se sei un chimico, tale rimani. Anche quando il caos di persone in un centro commerciale, ti porta a pensare al movimento caotico delle molecole dei gas.

Siamo chimici, cioè cacciatori, diceva Primo Levi e lo rimaniamo per tutta la vita.

Questa immagine è un regalo di pensionamento di un amico di redazione.

Plastiche alternative?

15 aprile, 2025 - 15:04

Diego Tesauro

In un precedente post abbiamo smitizzato il riciclo della plastica da idrocarburi; in particolare il polietilene ed il polipropilene sono difficili da scomporre in monomeri o in frammenti riutilizzabili per produrre nuovamente della plastica secondaria identica a quella primaria a causa della stabilità dei legami carbonio-carbonio. Sarebbe pertanto auspicabile una riduzione e riuso di queste forme di plastica, in primo luogo per il monouso. Laddove non fosse possibile il riuso, per mantenere l’integrità e la salubrità degli alimenti oppure per usi sanitari e non essendo la plastica attuale riciclabile, né attualmente smaltibile se non con costi economici ed ambientali difficilmente sostenibili, cosa bisognerebbe fare? Ci sono alternative?

Molti colleghi ricercatori in tutto il mondo, ma anche in Italia, sono meritoriamente ed attivamente impegnati nella ricerca per produrre polimeri a partire da sostanze naturali e soprattutto da scarti alimentari essendo importante non utilizzare materia prodotta specificamente per il suo impatto ambientale. Accanto alla materia prima, bisogna immediatamente individuare anche il destino del polimero dopo l’uso.

Oggi la plastica prodotta da idrocarburi, come sintetizzato nella figura 1, è solo in minima parte riutilizzata per plastica e comunque nella maggior parte dei casi, diversa da quella originaria. Uno dei tre metodi, il chimico, che potrebbe rigenerare una materia secondaria analoga alla primaria, è stato ben analizzato in un articolo apparso di recente [1] e citato in altri post.

Figura 1 Schema che in proporzione mostra come attualmente solo una limitatissima parte della plastica venga effettivamente riciclata e comunque per un materiale differente rispetto a quello primario.

Il metodo chimico si basa sulla decomposizione termica attraverso la pirolisi o il cracking a vapore. Questi processi ad alta intensità energetica convertono solo una piccola parte del materiale nei suoi elementi costitutivi di base, principalmente utilizzabili come combustibili, e generano notevoli emissioni di CO2. La plastica alternativa, per essere sostenibile, deve essere compostabile; ma in questo caso si porrebbe comunque il problema della produzione della materia prima che avrebbe il suo notevole impatto ambientale, qualora fosse prodotta su terreni agricoli. Sarebbe ancora più desiderabile che la plastica fosse effettivamente scomponibile in monomeri o frammenti che ne permettessero una nuova formulazione. In questo caso la plastica secondaria dovrebbe avere proprietà, per quanto possibile, equiparabili a quella attualmente in uso. Fino ad oggi alternative, che rispondessero a queste richieste e che fossero economicamente compatibili, non si sono ancora registrate. Negli ultimi anni, però, è stata proposta un’alternativa interessante basata su un materiale a base poliestere con proprietà simili a quelle del polietilene ad alta densità (HDPE), ottenuto utilizzando la condensazione a stadi di acidi dicarbossilici e dioli [2].

Un recente articolo riporta un progresso significativo attraverso materiali che rispecchiano le proprietà desiderabili del polietilene, consentendo allo stesso tempo la completa scomposizione dei loro componenti di partenza in condizioni blande [3]. In particolare gli autori della ricerca presentano un percorso semplificato attraverso la polimerizzazione deidrogenativa, utilizzando catalizzatori di manganese che vanno a sostituire metalli ben più rari e costosi come rutenio e palladio. L’uso di manganese rende questo processo commercialmente più praticabile, essendo questo metallo più abbondante e meno costoso nonostante sia considerato fra gli elementi critici per la transizione ecologica perché presente nelle batterie per le auto elettriche. Il sistema consente la polimerizzazione diretta di dioli bioderivati da oli o microalghe a 18 atomi di carbonio senza un preciso controllo stechiometrico, formando legami esterei con idrogeno gassoso come unico sottoprodotto (Figura 2a).

Figura 2 Panoramica del riciclaggio catalitico a circuito chiuso di materiali PE-like con proprietà regolabili dalla polimerizzazione di materiali lineari e ramificati a base biologica quali i dioli. a, I monomeri lineari e ramificati sintetizzati dalla bioraffinazione di oli vegetali o di microalghe. b, Approccio diretto con polimerizzazione a circuito chiuso e il riciclo a base biologica di materiali PE-like con proprietà meccaniche altamente regolabili da dioli lineari e ramificati a catena lunga utilizzando un complesso di Mn.(copyright Nature)

Questo sistema rappresenta un progresso significativo. In condizioni ottimizzate, in presenza del catalizzatore e di una base (KOtBu) a 130 °C, il sistema raggiunge pesi molecolari fino a 185 kDa, paragonabili ai polietileni commerciali. Lo stesso catalizzatore può successivamente mediare la depolimerizzazione controllata a temperature moderate, offrendo una soluzione elegante sia per la formazione che per il riciclaggio del polimero.

La versatilità di questo approccio deriva dalla sua capacità di incorporare monomeri di dioli sia lineari che ramificati (Figura 2b). I componenti lineari forniscono cristallinità e resistenza meccanica, mentre i segmenti ramificati consentono la regolazione di proprietà come l’elasticità e l’adesione alle superfici.

Con un contenuto di ramificazione inferiore al 20%, i polimeri presentano un impacchettamento di cristalli ortorombici simile al polietilene convenzionale. Queste regioni cristalline consentono un efficiente impacchettamento della catena che conferisce elevata resistenza chimica e rigidità. Variando sistematicamente il contenuto di monomeri ramificati dal 3% all’80%, i ricercatori hanno modificato la cristallinità dal 44% a ad una struttura completamente amorfa, rispecchiando il comportamento osservato nel polietilene lineare a bassa densità (LDPE) commerciale. Questa modularità consente la produzione di materiali che vanno dai termoplastici rigidi (simili al polietilene ad alta densità, HDPE) agli elastomeri flessibili. L’incorporazione dello zolfo attraverso i gruppi tioetere nei segmenti ramificati rivela un’altra caratteristica utile di questi materiali: la forte adesione alle superfici metalliche come l’acciaio inossidabile, eguagliando le prestazioni degli adesivi commerciali. Questa forza adesiva, notevolmente assente nelle varianti senza gruppi tioetere, dimostra come la progettazione molecolare strategica possa conferire funzionalità aggiuntive oltre alle proprietà convenzionali del polietilene.

La caratteristica più distintiva del sistema è la sua efficiente riciclabilità chimica. Lo stesso catalizzatore al manganese consente la depolimerizzazione selettiva attraverso l’idrogenazione, raggiungendo tassi di recupero del monomero fino al 99% anche in presenza di plastiche e additivi commerciali. I monomeri recuperati sono stati ripolimerizzati con successo e rese elevate ottenendo un materiale con le stesse proprietà di resistenza alla trazione, allungamento alla rottura e tenacità paragonabili a quelli del campione vergine. Gli autori hanno verificato queste proprietà per altri due cicli aggiuntivi.

Un altro aspetto particolarmente rilevante da sottolineare che i contaminanti comuni presenti nella raccolta della plastica, come il polietilene tereftalato (PET), rimangono intatti, consentendo una separazione semplice mentre viene condotta la reazione di depolimerizzazione completa a 110 °C. Per cui i monomeri recuperati possono essere isolati attraverso la cristallizzazione e ripolimerizzati senza perdita di proprietà, dimostrando un vero riciclo a circuito chiuso, qualora questo materiale fosse mescolato a rifiuti misti. Oggi questa situazione è il collo di bottiglia particolarmente critico nelle attuali infrastrutture di riciclaggio della plastica. Il processo si adatta a materiali colorati e vari additivi, suggerendo una potenziale fattibilità industriale, anche se, per adesso, non si è andati oltre alla produzione di 30 g di polimero.

Di fronte a questi risultati, sembrerebbe di aver trovato una valida soluzione ai problemi.

In realtà restano sicuramente alcune problematiche. Per la ricerca futura si presenta la necessità di ridurre i carichi dei catalizzatori mantenendo alti i pesi molecolari; il che rappresenta una sfida chiave per la redditività economica. Inoltre lo sviluppo di catalizzatori ancora più attivi e di sistemi di leganti più semplici, che operino a temperature più basse, potrebbe migliorare ulteriormente le proprietà. Il lavoro futuro dovrebbe concentrarsi sull’ottimizzazione della ri-polimerizzazione per mantenere pesi molecolari costanti su più dei tre cicli, testati dagli autori della ricerca e sull’espansione degli studi sulla sensibilità all’umidità e sulle prestazioni a lungo termine con additivi commerciali.

Guardando al futuro, con l’avanzare della ricerca, sarà fondamentale espandere questo approccio ad altre classi di monomeri, soprattutto che derivino da prodotti di scarto, mantenendo l’equilibrio tra lavorabilità, prestazioni e riciclabilità. L’integrazione con l’infrastruttura di riciclaggio esistente presenta sia sfide che opportunità, in particolare per quanto riguarda i sistemi di recupero dei catalizzatori e la scalabilità dei processi di depolimerizzazione selettiva.

[1] Garcia-Gutiérrez P. et al. Environmental and economic assessment of plastic waste recycling and energy recovery pathways in the EU Resources, Conservation & Recycling  2025, 215, 108099

[2] Schwab S.T. Synthesis and Deconstruction of Polyethylene-type Materials Chem. Rev. 2024, 124, 5, 2327–2351 https://doi.org/10.1021/acs.chemrev.3c00587

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